XIX domenica del Tempo Ordinario; commento al Vangelo

Letture: Sapienza 18,6-9; Salmo 32; Ebrei 11, 1-2.8-19; Luca 12, 32-48

Il fondale unico su cui si stagliano le tre parabole (i servi che attendono il loro signore, l’amministratore messo a capo del personale, il padrone di casa che monta la guardia) è la notte, simbolo della fatica del vivere, della cronaca amara dei giorni, di tutte le paure che escono dal buio dell’anima in ansia di luce. È dentro la notte, nel suo lungo silenzio, che spesso capiamo che cosa è essenziale nella nostra vita. Nella notte diventiamo credenti, cercatori di senso, rabdomanti della luce. L’altro ordito su cui sono intesse le parabole è il termine “servo”, l’autodefinizione più sconcertante che ha dato di se stesso. I servi di casa, ma più ancora un signore che si fa servitore dei suoi dipendenti, mostrano che la chiave per entrare nel regno è il servizio. L’idea-forza del mondo nuovo è nel coraggio di prendersi cura. Benché sia notte. Non possiamo neppure cominciare a parlare di etica, tanto meno di Regno di Dio, se non abbiamo provato un sentimento di cura per qualcosa.

Nella notte i servi attendono. Restare svegli fino all’alba, con le vesti da lavoro, le lampade sempre accese, come alla soglia di un nuovo esodo (cf Es 12.11) è un di più, un’eccedenza gratuita che ha il potere di incantare il padrone. E mi sembra di ascoltare in controcanto la sua voce esclamare felice: questi miei figli, capaci ancora di stupirmi! Con un di più, un eccesso, una veglia fino all’alba, un vaso di profumo, un perdono di tutto cuore, gli ultimi due spiccioli gettati nel tesoro, abbracciare il più piccolo, il coraggio di varcare insieme la notte. Se alla fine della notte lo troverà sveglio. Se lo troverà, non è sicuro, perché non di un obbligo si tratta, ma di sorpresa; non dovere ma stupore.

E quello che segue è lo stravolgimento che solo le parabole, la punta più rifinita del linguaggio di Gesù, sanno trasmettere: li farà mettere a tavola, si cingerà le vesti, e passerà a servirli. Il punto commovente, il sublime del racconto è quando accade l’impensabile: il padrone che si fa servitore. «Potenza della metafora, diacona linguistica di Gesù nella scuola del regno» (R. Virgili). I servi sono signori. E il Signore è servo. Un’immagine inedita di Dio che solo lui ha osato, il Maestro dell’ultima cena, il Dio capovolto, inginocchiato davanti agli apostoli, i loro piedi nelle sue mani; e poi inchiodato su quel poco di legno che basta per morire. Mi aveva affidato le chiavi di casa ed era partito, con fiducia totale, senza dubitare, cuore luminoso. Il miracolo della fiducia del mio Signore mi seduce di nuovo: io credo in lui, perché lui crede in me. Questo sarà il solo Signore che io servirò perché è l’unico che si è fatto mio servitore.

P. Ermes Ronchi

«La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede»: questa affermazione capitale, con la quale si apre la II lettura (Lettera agli Ebrei), è la chiave per comprendere il messaggio della liturgia di oggi. A sostenere la speranza e la carità del credente è la fede, che si alimenta e cresce nell’ascolto della Parola di Dio (cfr. Romani 10,17) e si nutre dell’esperienza personale che ciascuno fa dell’amore del Padre, del Figlio e dello Spirito, testimoniato e confermato da quanti, lungo la storia della Salvezza, hanno incontrato Dio e ne sono diventati amici. Per fede, continua la lettera, Abramo e Sara, primizie di una moltitudine, hanno accolto il “già e non ancora” della rivelazione di Dio in loro; per fede il patriarca ha potuto offrire «il suo unigenito figlio» Isacco in sacrificio, sapendo che «Dio è capace anche di far risorgere»; «nella fede morirono tutti costoro, senza avere ottenuto i beni promessi», che «videro solo da lontano». La perseveranza della fede è certezza che Dio non delude: essa non si perde né è affievolita dalle traversie o dalle sofferenze cui ciascuno è sottoposto nella vita quotidiana, perché viene dall’aver conosciuto e accolto il Salvatore nella nostra vita, dal percepire chiaramente la sua presenza, dal sentire che veramente Egli è «con noi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Matteo 28,20). La fede ha sostenuto il popolo santo di Dio, destinatario delle promesse della Salvezza nel corso della storia: il libro della Sapienza (I lettura) precisa che «la liberazione fu preannunciata ai padri perché avessero coraggio, sapendo a quali giuramenti avevano prestato fedeltà. Il popolo era in attesa della salvezza dei giusti», e ha trasmesso questa fede ai propri figli, di generazione in generazione. Essi sono concordi nell’«intonare le sacre lodi dei padri»: il salmo 32 (Responsorio) invita i giusti a esultare nel Signore e dichiara «beato il popolo che Dio ha scelto come sua eredità». Questo popolo «attende il Signore» e ripete: «Egli è nostro aiuto e nostro scudo». 

Certi di essere amati

Nel Vangelo Gesù conferma la fede dei suoi discepoli: «Al Padre vostro è piaciuto darvi il Regno». Invita a vivere forti solo di questa certezza, con la ricchezza inesauribile che deriva dall’essere figli amati del Re della Storia. Quanto viviamo, seppure doloroso, non ci toglie l’eredità cui siamo stati chiamati: questa verità dà spessore alla nostra esistenza e diventa monito per gli altri, perché profuma dell’amicizia fedele di Cristo. Siamo noi, oggi, il popolo santo di Dio, che lo attende «pronto, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese», come si aspetta lo sposo (cfr. Matteo 25,1-13). Questo popolo, sebbene «piccolo gregge», apparentemente indifeso ed esposto alle persecuzioni dei lupi, «non teme», non si scoraggia se sembra che il Signore «tardi a venire», non si stanca di attendere il Salvatore e in questa attesa, se anche a tratti può farsi faticosa, non cede alle lusinghe del mondo né «si conforma alla sua mentalità» (cfr. Romani 12,2), non rinuncia al deposito della fede né lo mistifica per comportarsi come al mondo piace. Sa che il Signore è sua eredità, che presso di Lui, dove è il tesoro, deve essere fisso il cuore.

Laura Paladino