Letture: Geremia 1,4-5.17-19; Salmo 70; Prima Lettera ai Corinzi 12,31 – 13,13; Luca 4,21-30
Nazaret passa in fretta dallo stupore all’indignazione, dagli applausi a un raptus di violenza. Tutto parte da una richiesta: «Fai anche qui i miracoli di Cafarnao!» . Quello che cercano è un bancomat di miracoli fra i vicoli del villaggio, un Dio che stupisca con effetti speciali, che risolva i problemi e non uno che cambi il cuore. Non farò miracoli qui; li ho fatti a Cafarnao e a Sidone e sulla pelle del lebbroso: il mondo è pieno di miracoli, eppure non bastano mai. Li aveva appena incantati con il sogno di un mondo nuovo, lucente di libertà, di occhi guariti, di poveri in festa, e loro lo riconducono alle loro attese, a un Dio da adoperare a proprio profitto, nei piccoli naufragi quotidiani. Ma il Dio di Gesù non si sostituisce a me, non occupa, non invade, non si impossessa. È un Dio di sconfinamenti, la sua casa è il mondo: e la sinagoga si popola di vedove forestiere e di generali nemici.
Inaugurando così un confronto tra miracolo e profezia, tra il Dio spiazzante della Parola e il Dio comodo dei problemi risolti. Eppure, che cosa c’è di più potente e di più bello di uno, di molti profeti, uomini dal cuore in fiamme, donne certe di Dio? Come gli abitanti di Nazaret, siamo una generazione che ha sperperato i suoi profeti, che ha dissipato il miracolo di tanta profezia che lo Spirito ha acceso dentro e fuori la Chiesa. I nomi sono tanti, li conoscete tutti. «Non è costui il figlio di Giuseppe?» Che la profezia abbia trovato casa in uno che non è neanche un levita o uno scriba, che ha le mani callose, come le mie, uno della porta accanto, che ha più o meno i problemi che ho io; che lo Spirito faccia del quotidiano la sua eternità, che l’infinito sia alla latitudine di casa, questo ci pare poco probabile. Belli i profeti, ma neanche la profezia basta.
Ciò che salverà il mondo non sono Elia o Eliseo. Non coloro che hanno una fede da trasportare le montagne, ma coloro che sanno trasportare il loro cuore verso gli altri e per loro. Non i profeti, ma gli amanti. E se la profezia è imperfetta, se è per pochi, l’amore è per tutti. L’unica cosa che rimane quando non rimane più nulla. Allora lo condussero sul ciglio del monte per gettarlo giù. Ma come sempre negli interventi di Dio, improvvisamente si verifica nel racconto lo strappo di una porta che si apre, di una breccia nel muro, un “ma”: ma Gesù passando in mezzo a loro si mise in cammino. Non fugge, non si nasconde, passa in mezzo; aprendosi un solco come di seminatore o di mietitore, mostrando che si può ostacolare la profezia, ma non bloccarla. “Non puoi fermare il vento, gli fai solo perdere tempo” (F. De Andrè). Non facciamo perdere tempo al vento di Dio.
Ermes Ronchi
Avvenire
Ci portiamo dentro un grande bisogno di essere riconosciuti, vorremmo che gli altri ci vedessero per quello che siamo veramente e soprattutto che non approfittassero della nostra debolezza. Da bambini speriamo che succeda così, ma poi accade talvolta che non ci sentiamo riconosciuti da chi ci è più vicino, i luoghi più familiari possono diventare quelli più ostili. Paradossalmente, la vicinanza e la quotidianità creano un velo sull’identità dell’altro: diamo per scontato, mettiamo etichette, presumiamo di sapere già tutto su chi ci sta accanto. In un affresco della basilica di San Clemente si racconta la storia di sant’Alessio (vissuto intorno al IV sec. d.C.): Alessio lascia la sua casa per intraprendere un viaggio spirituale, ma gli eventi della vita lo riporteranno proprio nella casa del padre dove, senza essere riconosciuto, si confonderà tra gli altri mendicanti. Solo al termine della sua vita verrà trovata una lettera tra le sue mani, in cui racconta la sua storia e viene finalmente riconosciuto dal padre straziato dal dolore. Alessio potrebbe essere l’immagine di coloro che pur abitando luoghi familiari, non si sentono visti, forse perché non rispondono alle attese che gli altri proiettano su di loro.
È proprio nei contesti più familiari che a volte facciamo fatica a manifestare quello che pensiamo, a condividere ciò che sentiamo o semplicemente a esprimere un parere su quello che vediamo: abbiamo paura di non essere capiti, di perdere l’affetto, di distruggere la relazione. Sono anche le paure di Geremia che è chiamato a comunicare proprio al suo popolo il giudizio punitivo di Dio. Geremia è ben consapevole di essere solo un ragazzo e ha paura di confrontarsi con le autorità del suo popolo. Abbiamo paura perché a volte farsi vedere come si è davanti a chi ci conosce, avere il coraggio di esprimere il proprio parere davanti all’istituzione, denunciare i potenti, significa diventare vittima. Geremia ha paura di passare da accusatore ad accusato. Come Geremia, ci sentiamo fragili, esposti, vulnerabili.
Laddove ci aspetteremmo di essere riconosciuti, molte volte siamo invece svalutati. La svalutazione è un meccanismo di difesa sottile, particolarmente usato nei contesti familiari. Proprio chi ci conosce di più, quando si sente provocato dalle nostre parole, svaluta quello che diciamo, prendendo le distanze da noi: senti chi parla! E questa violenza sottile può esercitarla solo chi ci conosce bene. Siamo attenti e affascinati dall’esotico, ma siamo molto più refrattari ad accettare la correzione da parte di chi conosciamo bene. Anche Gesù fa l’esperienza della svalutazione all’interno di un contesto familiare: «Non è costui il figlio di Giuseppe?», «Medico cura te stesso!». Dio si presenta così, con il volto di un familiare. Dio non sceglie la via dello straordinario, ma entra nella semplicità del quotidiano. Davanti a questa chiusura, Gesù non può operare. Proprio coloro che dovrebbero essere più vicini, sono quelli che lo rifiutano, lo allontanano e gli impediscono di operare.
Gesù sa bene che questa dinamica non è nuova, ma appartiene alla storia dell’umanità. Per questo ricorda che anche due grandi profeti come Elia ed Eliseo furono mandati a degli estranei, perché anch’essi sperimentarono di non essere riconosciuti e apprezzati nei loro contesti ordinari. E la storia si ripete ancora oggi: proprio i luoghi in cui Gesù è più familiare, la sua casa, proprio gli ambiti dove Gesù abita ordinariamente, rischiano di diventare i luoghi da cui egli è mandato via, i luoghi dove non è ascoltato, i luoghi dove si continua a svalutare la sua parola. E forse proprio per questo, come a Nazareth, noi, che presumiamo di conoscerlo meglio, siamo il luogo dove Gesù non può operare.
Siamo una società arrabbiata, esattamente come i concittadini di Gesù: «tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno» e la rabbia acceca, distrugge, confonde e assolutizza, come la rabbia del figlio maggiore di Lc 15, un figlio così arrabbiato da ritenere che il padre non gli abbia mai dato un capretto per fare festa con gli amici. Siamo pieni di rabbia e cerchiamo un nemico su cui riversarla. E il nemico principale su cui riversare la nostra rabbia è colui che mette in questione le nostre abitudini inveterate e la nostra tranquillità inaridita. Luca ci mostra discretamente che il riconoscimento dell’altro dipende allora da quello di cui ci riempiamo: all’inizio del capitolo 4, Luca nota infatti che Gesù era pieno di Spirito santo e per questo poteva sostenere la fatica del deserto. Chi invece è pieno di rabbia inevitabilmente farà fatica a riconoscere colui che gli sta davanti, anche se è Cristo.
P. Gaetano Piccolo
Rigantur mentes