«Voglio diventare cristiano!». Immagino che una simile richiesta susciti in qualsiasi operatore pastorale un certo stupore, forse anche un po’ di compiacenza. Probabilmente anche un po’ di sana diffidenza. Molto dipende dal soggetto e dal luogo.
Già, il contesto: siamo nella sala polivalente del padiglione nuovo del carcere di Modena, in un pomeriggio feriale, fuori c’è un bel sole primaverile. Una di quelle classiche belle giornate, quelle che cominciano bene e che… tali dovrebbero finire. Ma che fosse proprio lui a farmi questa richiesta non me l’aspettavo. Altri forse sì, ma lui no.
Liturgia in carcere
In quel periodo tutte le domeniche mattina celebravo la messa nel padiglione nuovo per i detenuti di tre sezioni. Una struttura nuova, con i muri dai colori tenui e caldi (a differenza del padiglione vecchio dove sono grigi e freddi), ma dove non funziona quasi nulla, tipo l’acqua calda che semplicemente non è mai arrivata.
Così, prima della messa, insieme a Carlo, siamo soggetti a sfoghi e lamentele. Può ben valere come «atto penitenziale» della liturgia. Poi si mettono tutti seduti e si inizia col segno della croce. Da lì in poi l’atmosfera si trasforma, forse anche gli animi (almeno così me la racconto). Dopo le letture segue l’omelia, che al sottoscritto piace rendere partecipata, e gli interventi ci sono – eccome! Alcuni a segno, altri un po’ meno. Ma anche in questo caso una risata aiuta a proseguire. E tutte le domeniche è presente anche lui, anche lui scende per la messa.
È un uomo sui trentacinque anni, alto, robusto, barba e capelli lunghi, sciolti, alla Jesus Christ Superstar. Lui però sta in piedi, con sguardo serio, non si siede con gli altri. Quando Carlo lo invita a farlo, semplicemente lo ignora, allora lo invito anch’io.
«Non mi sono mai piaciuti i preti, sempre a comandare. Fai la tua messa e non rompere le…».
Forse mi sfida. Ho una certa paura. Soprattutto del suo sguardo.
In ascolto
Così per un bel po’ di domeniche. Finché una mattina, stando in piedi appoggiato come suo solito alle spalle della porta, gesticola mostrandomi il braccio destro. È ingessato. Con un cenno della testa gli faccio capire che l’ho notato. Alla fine della messa lo avvicino.
«Che è successo? Come hai fatto a farti male?»
«Ho dato un pugno allo sbarramento della sezione… sono sempre i miei maledetti pugni che mi mettono nei guai!»
«Capisco…»
«Ma che vuoi capire tu…»
«Stavolta però hai fatto male solo a te»
«Meglio solo a me che anche a lui!»
«Vedo che scendi sempre la domenica…»
«Qui si sentono parole diverse… ma non ti illudere, non mi fido né di te né dell’altro prete!»
Ogni mercoledì pomeriggio c’è il gruppo del vangelo e il cappellano e alcuni volontari radunano alcuni detenuti per un incontro di approfondimento e scambio sul vangelo della domenica successiva. È un bel momento e quando riesco a liberami dal lavoro in officina partecipo anch’io.
E c’è anche lui. E caso vuole che ci ritroviamo l’uno di fronte all’altro. Lo posso vedere bene. Vedo che ascolta, non interviene ma ascolta. Mi colpisce come ascolta e come guarda le persone. Non riesco a non pensare che assomiglia parecchio al Gesù raccontato nel vangelo appena letto. Sì, secondo me, doveva essere più o meno così il profeta di Nazaret.
Lui però non si chiama Gesù, ma Alex; non è ebreo, ma italo-cileno. È finito in carcere perché ha picchiato pesantemente un tizio che molestava la sua ragazza. Donna che lui amava, ma lei non più di tanto, visto che dal giorno dell’arresto s’è letteralmente dileguata.
Il colloquio
La domenica successiva lo vedo alla messa, stavolta seduto con gli altri. Alla fine si avvicina e mi chiede se sono disposto a fare un colloquio con lui. Fa la «domandina» di prassi e poi ci incontriamo.
E così ci arriviamo: siamo nella sala polivalente del padiglione nuovo del carcere di Modena, in un pomeriggio feriale, fuori c’è un bel sole primaverile. Una di quelle classiche belle giornate, quelle che cominciano bene… Alex parla tanto, mi racconta della sua vita, del Cile, del suo arrivo in Italia. Lo ascolto volentieri. Mi colpisce il suo accento latino, rende piacevole ascoltarlo.
Forse non mi ha raccontato tutta la sua vita, ma tanto di lui sì. È un bel colloquio. Uno dei più belli che ho sperimentato. Mi dice che era da un po’ che voleva parlarmi e raccontarmi, ma doveva capire se si poteva fidare. Mi ringrazia, soprattutto perché parlo con loro apertamente del vangelo. Stiamo per congedarci quando mi prende le mani e mi dice che c’è ancora una cosa che deve dirmi.
«Voglio diventare cristiano! Luca, voglio essere battezzato!»
Che fosse proprio Alex a farmi questa richiesta non me l’aspettavo. Altri forse sì, ma lui no.
«Que haces, estas llorando?». Ma non ero il solo.
Informo il cappellano e il diacono e organizziamo un cammino di preparazione.
Festa e cambiamento
Un’altra domenica mattina, alla fine della messa, sempre nel padiglione nuovo, con Alex presente, avviso i convenuti che la domenica successiva ci sarebbe stato il battesimo di Alex.
Parte un fragoroso applauso. Poi uno dei presenti, il classico leader, calma il gruppo intimando: «Ragazzi, dobbiamo preparare bene anche noi! Questa settimana fare tutti i bravi e… mica pensare alle donne eh!».
Alex ha scontato la sua pena. Attualmente è un uomo libero, ha un lavoro e sta ricostruendo la sua vita… Forse pensa ancora alla sua donna, quella che l’ha abbandonato. Mi fa piacere, però, che ora la penserà anche da cristiano. Magari per un’altra possibilità.
Luca Rosina