Letture: Isaia 6,1-2.3-8; Salmo 137; 1 Corinzi 15,1-11; Luca 5,1-11
Comincia così la storia di Gesù con i suoi discepoli: dalle reti vuote, dalle barche tirate in secca. Linguaggio universale e immagini semplicissime. Non dal pinnacolo del tempio, ma dal pulpito di una barca a Cafarnao. Non dal santuario, ma da un angolo umanissimo e laico. E, in più, da un momento di crisi. Il Signore ci incontra e ci sceglie ancora, come i primi quattro, forse proprio per quella debolezza che sappiamo bene. Fingere di non avere ferite, o una storia accidentata, ci rende commedianti della vita. Se uno ha vissuto, ha delle ferite. Se uno è vero, ha delle debolezze e delle crisi. E lì ci raggiunge la sua voce: Pietro, disubbidisci alle reti vuote, ubbidisci a un sogno. Gli aveva detto: Allontanati da me, perché sono un peccatore. Ma lui non se n’è andato e sull’acqua del lago ha una reazione bellissima.
Il grande Pescatore non conferma le parole di Pietro, non lo giudica, ma neppure lo assolve, lo porta invece su di un altro piano, lontano dallo schema del peccato e dentro il paradigma del bene futuro: sarai pescatore di uomini. Non temere il vuoto di ieri, il bene possibile domani conta di più. Gesù rialza, dà fiducia, conforta la vita e poi la incalza verso un di più: d’ora in avanti tu sarai… ed è la vita che riparte. Quando parla a Pietro, è a me che parla. Nessuno è senza un talento, senza una barchetta, una zattera, un guscio di noce. E Gesù sale anche sulla mia barca. Sale sulla barca della mia vita che è vuota, che ho tirato in secca, che quando è in alto mare oscilla paurosamente, e mi prega di ripartire con quel poco che ho, con quel poco che so fare, e mi affida un nuovo mare. E il miracolo non sta nella pesca straordinaria e nelle barche riempite di pesci; non è nelle barche abbandonate sulla riva, ancora cariche del loro piccolo tesoro.
Il miracolo grande è Gesù che non si lascia impressionare dai miei difetti, non ha paura del mio peccato, e vuole invece salire sulla mia barca, mio ospite più che mio signore. E, abbandonato tutto, lo seguirono. Che cosa mancava ai quattro per convincerli a mollare barche e reti per andare dietro a quel giovane rabbi dalle parole folgoranti? Avevano il lavoro, una piccola azienda di pesca, una famiglia, la salute, il Libro e la sinagoga, tutto il necessario per vivere. Eppure qualcosa mancava. E non era una morale più nobile, non dottrine più alte. Mancava un sogno. Gesù è il custode dei sogni dell’umanità. Offre loro il sogno di cieli nuovi e terra nuova, il cromosoma divino nel nostro Dna, fratelli tutti, una vita indistruttibile e felice. Li prende e li fa sconfinare. Gli ribalta il mondo. E i pescatori cominciano ad ubbidire agli stessi sogni di Dio.
Ermes Ronchi
Avvenire
L’odierna pagina evangelica ci presenta l’incontro di Gesù con alcuni uomini che diverranno suoi discepoli: tra questi Pietro e i due fratelli Giacomo e Giovanni. Non è un racconto di vocazione (sebbene il titolo editoriale di questo episodio nella Bibbia di Gerusalemme parli di “Chiamata dei primi quattro discepoli”). Qui Gesù non dice a nessuno: “Vieni e seguimi”. Siamo invece di fronte a un incontro. Spesso anche per noi la “vocazione” passa attraverso incontri. E l’incontro tra Gesù e Pietro porta quest’ultimo a scoprire dimensioni profonde di sé e a cogliersi davanti al Signore: “Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore” (Lc 5,8). L’incontro con il Signore è al tempo stesso conoscenza di Lui e di sé stessi.
La profondità di questo incontro risalta anche dal fatto che Simone ha già conosciuto Gesù. Nel capitolo precedente, Luca ha mostrato Gesù che parla con autorevolezza nella sinagoga di Nazaret (4,16-30), che insegna, scaccia demoni e compie guarigioni mostrando così la sua potenza di profeta e di inviato escatologico di Dio (4,31-44). Tra le guarigioni che compie vi è anche quella della suocera di Simone, nella cui casa Gesù è entrato (4,38-39). Dunque Simone ha già una conoscenza di Gesù, della potenza della sua parola e della sua azione taumaturgica, e ha confidenza con lui tanto da farlo entrare in casa sua. Eppure non l’ha ancora conosciuto a sufficienza e, soprattutto, non ha ancora conosciuto se stesso alla luce del Signore. Sì, la conoscenza del Signore è un cammino, è in divenire: è il percorso di una vita. È così anche per noi: si è alla sequela di Gesù, magari da tempo, eppure può avvenire che non si conosca ancora a fondo chi è il Signore e che non si sia andati abbastanza in profondità nella conoscenza di sé davanti a Lui.
Occorre che l’incontro si approfondisca, e questo, per noi come per Pietro, avviene spesso grazie a una crisi. Il nostro testo ci pone di fronte a un incontro personale e a una crisi: se dobbiamo parlare di vocazione, allora si tratta di vocazione come incontro e come crisi. Pietro, che conosceva Gesù nella sua forza, ora arriva a conoscere se stesso nella propria debolezza. E dice: “Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore” (5,8). La conoscenza di Gesù quale Signore diviene conoscenza reale di sé quale peccatore, diviene crisi delle immagini idealizzate di sé. Questa esperienza sarà importante anche nel prosieguo del cammino di Pietro e ci mostrerà che quel duc in altum (“prendi il largo”: 4,4) è innanzitutto un andare in profondità nella conoscenza di sé e del Signore. Il nostro testo presenta anche la nascita del gruppo dei discepoli, il radunarsi attorno a Gesù del gruppo ecclesiale: alcuni uomini che lo seguono con radicalità (v. 11: “Lasciarono tutto e lo seguirono”) e che, attorno a lui, formano una comunione. All’origine di questo vi è la persona di Gesù che annuncia la parola di Dio. La chiesa nasce come risposta alla parola di Dio annunciata da Gesù. La chiesa nasce come ecclesia audiens.
I vv. 1-2a ci presentano il tratto fondante di tutta la scena: Gesù che annuncia la parola di Dio. Egli è il seminatore che semina la parola (Lc 8,4-8.11-15). Ecco il ministero di Gesù, il servizio in cui Gesù spende la sua vita: annunciare la parola di Dio. Luca annota che la folla “faceva ressa” attorno a Gesù “per ascoltare la parola di Dio”, perché questa è la sete profonda della gente che sente nelle parole di Gesù un’autorità non libresca e non moralistica. Il desiderio della gente è alto, la sete di senso è forte: ciò che la gente chiede non sono surrogati, ma la parola di Dio, un incontro con il Dio vivente che parla, interpella, sconvolge l’esistenza, impegna all’avventura della sequela esigente. Se Gesù annuncia la parola di Dio, gli Atti degli Apostoli presentano gli apostoli che a loro volta annunciano la parola di Dio, cioè la salvezza che si è fatta carne nella vita, morte e resurrezione di Gesù di Nazaret, il Messia (At 4,31; 6,2.7; 8,14; 11,1; 12,24; 13,5.7.44.46.48; 16,32; 17,13; 18,11). Il ministero degli apostoli non può che essere in continuità con ciò che faceva Gesù: annunciare la Parola di Dio. Ecco la missione perenne della chiesa: non inventarsi compiti che il Signore non le ha dato, ma riandare sempre al mandato essenziale: l’annuncio della parola di Dio.
Di fronte alla calca Gesù, viste due barche da cui erano scesi i pescatori per lavare le reti, sale sulla barca che apparteneva a Simone e gli chiede di scostarsi un po’ da terra: lì, stando seduto, insegnava alle folle (Lc 5,2b-3). La barca su cui i pescatori non hanno preso nulla durante la notte, diviene ora il luogo da cui Gesù “prende” metaforicamente persone conducendole all’ascolto della parola di Dio. I pescatori stanno lavando le reti perché nella notte non avevano preso nulla. Stanno riponendo gli arnesi di lavoro per la notte successiva: è la notte, infatti, il tempo propizio per pescare. Anche alla luce di questa annotazione va compresa la richiesta che Gesù fa a Simone di prendere il largo (“avanza in acque profonde”; epanágaghe eis tò báthos; duc in altum) e di calare le reti per pescare. Simone oppone a questa richiesta la sua competenza di pescatore: “Abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla” (Lc 5,4-5). Ovvero: è pura follia voler andare nuovamente in mare aperto ora che si è stanchissimi e che le condizioni sono del tutto sfavorevoli alla pesca.
Questo duc in altum è una follia, un’assurdità dal punto di vista umano, è una richiesta che contraddice la competenza specifica di Simone e degli altri pescatori. Ma proprio qui interviene il salto della fede. Simone dice “ma sulla tua parola, getterò le reti” (Lc 5,5), accettando di essere contraddetto nelle sue competenze e facendo affidamento sul Signore. La fede e la relazione con il Signore si approfondiscono per noi quando ci costano, ci pongono in crisi e ci contraddicono. Proprio questo faticoso lavoro di apertura al Signore diventerà occasione di fecondità. La missione della chiesa (e il verbo greco usato da Luca per indicare la fatica dei pescatori “abbiamo faticato” è lo stesso usato spesso da Paolo per indicare il lavoro dell’Apostolo e la fatica missionaria: cf. Gal 4,11) può essere uno spreco di fatica se non si accorda il primato al Signore e alla sua parola. L’obbedienza fattiva (“avendolo fatto”: Lc 5,6) dei discepoli porta a una pesca veramente prodigiosa: nella povertà delle nostre vite avviene per fede ciò che è impossibile all’uomo ma non a Dio. Tale è la quantità di pesci catturati che le reti minacciano di rompersi e l’altra barca deve venire in soccorso di quella di Simone (Lc 5,6-7).
Dietro le operazioni di pesca che avvengono congiuntamente fra le due barche si delinea discretamente il formarsi di un gruppo di discepoli, di un gruppo ecclesiale. L’obbedienza alla parola di Dio è il fondamento necessario, ma poi in questo spazio i membri della comunità si vengono in aiuto l’un l’altro. Nella comunità cristiana ci si aiuta, ci si sostiene, si lavora insieme, si riconosce il bisogno che uno ha dell’altro e allora il volto ecclesiale si umanizza e prende i connotati della vera fraternità, del luogo dove non abita la paura, il timore dei giudizi, ma dove ci si riconosce reciprocamente. Avviene così il passaggio di quegli uomini dall’essere soci (métokoi: Lc 5,7) all’essere membri di una koinonía (koinonoí: Lc 5,10). Avviene il passaggio della chiesa dall’essere un’équipe di lavoro all’essere fraternità, chiesa di Dio, assemblea del Signore.
Qui si colloca la reazione di Simon Pietro. Vedendo l’accaduto, Pietro riconosce che ciò che è avvenuto nella più ordinaria quotidianità, una battuta di pesca, è evento suscitato dal Signore, e sente la distanza fra sé e il Signore (Lc 5,8). L’incontro diviene sconvolgimento esistenziale. Pietro ha accettato di andare in altum, cioè in profondo. Questo comando chiama a scendere in profondo, in un abisso in cui si scopre il proprio peccato. La vicinanza del Signore è sentita parallelamente alla propria indegnità rispetto al Signore. Il momento della massima vicinanza è anche il momento della presa di coscienza della grande distanza che esiste fra sé e il Signore. Per questo Pietro dice: “Signore, allontanati da me, che sono un peccatore” (Lc 5,8). Ecco la vocazione come crisi. Ma se la vocazione è una crisi, la crisi della vocazione può essere un rinnovamento della vocazione stessa.
Quando, più avanti nel cammino, Pietro conoscerà la crisi della sua sequela, questa crisi sarà il possibile re-inizio. Come infatti l’inizio della sequela di Pietro è segnato dall’obbedienza alla parola (“sulla tua parola getterò le reti”) del Signore (“Signore”), dal riconoscimento della sua distanza dal Signore (“allontanati da me”) e dalla confessione del suo peccato (“io sono un peccatore”), la crisi della sua vocazione e il re-inizio dopo il triplice rinnegamento (Lc 22,54-60) saranno contrassegnati dagli stessi elementi: il ricordo della parola (“Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto”: Lc 22,61) del Signore (“Il Signore, voltatosi, guardò Pietro”: Lc 22,61), la manifestazione della distanza dal Signore (“uscito”: Lc 22,62) e del suo peccato (“pianse amaramente”: Lc 22,62). La crisi della storia che Pietro ha iniziato un tempo, è appello a ricominciarla. Sempre fondandosi sulla parola del Signore, sulla sua promessa, e sulla sua coscienza di essere peccatore. Vale per Pietro, vale per ogni cristiano.
Luciano Manicardi
Monastero di Bose