All’inizio del tempo ordinario dopo la pasqua, ci viene proposto ciò che Matteo pone proprio alla fine del vangelo (28, 16-20). È altamente probabile che questo brano sia costruito per una lettura simbolica. Non rappresenterebbe, cioè, i fatti così come sarebbero accaduti, ma come Matteo li avrebbe riletti per mostrare un senso ben preciso della Chiesa. Di essa, infatti, si parla.
Una Chiesa non più vicinissima alla resurrezione, ma ormai già abbastanza organizzata e stabilizzata, quella tra gli anni 80 e 90 del primo secolo, quando già sono passate un paio di generazioni dalla Pasqua. Perciò viene descritta una Chiesa che assomiglia meno a quella “iniziatica” delle origini e di più alla condizione storica “a regime”, quella che anche noi viviamo. Perciò anche più direttamente “parlante” per la Chiesa di oggi, trovando qui due serie di indicazioni per noi. La prima tratteggia l’essere della Chiesa, la seconda il suo agire. E nel mezzo ci si mostra l’azione di Cristo che collega questi due lati.
L’essere della Chiesa. Forse qui possiamo distinguere quattro indicazioni. La prima è che sono “undici” (v. 16), e non “dodici”, a dire che è una Chiesa incompiuta, la cui struttura e organizzazione non è perfetta. Se la pensiamo come “società perfetta dei cristiani” (Il vecchio “Catechismo”) siamo portati a pensare che la sua organizzazione umana debba essere esente da problemi o imperfezioni. Da cui, poi, facciamo derivare l’idea che essa non sbagli mai. Sarebbe ora di riconoscere che essere “santa e peccatrice” vuol dire, invece, avere una potenzialità, cioè Cristo che la abita nello Spirito, e un limite, cioè i fedeli che fanno quel che possono, come tutti. Ma Matteo ci suggerisce che proprio questa Chiesa “incompiuta” è quella stabilita da Cristo. Davvero, allora, serve innalzare la Chiesa quasi ad un “idolo”, dimenticandosi la sua incompiutezza?
La seconda. Essa è chiamata in “Galilea” (v. 16), cioè in quella regione di confine tra Ebrei e pagani, che spesso, dal centro religioso di Gerusalemme, veniva considerata un po’ “spuria”, religiosamente contaminata. Mt stesso la chiama esplicitamente “Galilea delle genti” (4,15), a indicare proprio questo carattere di “contatto” con il diverso. E per tre volte indica che il “vedere” della fede avviene proprio lì, tra le genti (28, 7.10.17). A dire che la Chiesa è, nel suo essere, una zona di confine, di contaminazione e che solo “tra le genti” riconosciamo Cristo risorto. Davvero, allora, serve preoccuparci subito di confinare chiaramente la fede e sperare di incontrare Cristo dentro a questi confini e “fuori dal mondo”?
La terza. Essa vive il cuore del suo essere, l’incontro con Cristo risorto, sul monte (v. 16). Questo è, dove è posta la “luce del mondo” che non può restare nascosta (5,14); è dove si manifesta lo splendore della bellezza del Signore (17, 1-29). Stare sul monte allora vuol ricordarci che la Chiesa è, nel suo essere, attraente, calamita delle genti. Ma noi non abbiamo perso occasione per trasformare questa posizione o in un “ritiro” autoreferenziale dal mondo, o in un tentativo di avere una posizione “dominante” di potere. Forse la crisi di credibilità che attraversiamo cerca proprio di purificare queste “storture”. Vale la pena, allora, resistere a questa crisi, senza provare a interrogarci su cosa ci insegna e ci richiama?
La quarta, forse la più importante. L’incontro con Cristo ha il sapore dell’amore, di un bacio (etimo di adorare v. 17) scambiato con Lui, e nello stesso tempo quello della difficoltà di farci afferrare da Lui fino in fondo, lasciando aperta anche la possibilità che ci stiamo sbagliando (etimo di dubbio v. 17). E va notato, che questa sembra essere la condizione “fondante e quotidiana”, che descrive il rapporto con Cristo, non tanto una mancanza da sistemare. L’amore adorante senza dubbi, cioè, non è sano e non appartiene al Cristiano. Allora, chi è davvero Chiesa? Chi accetta questa condizione o chi la combatte in nome di una ideale intransigente che fa ammalare la fede?
A questo punto la parola di Cristo entra nella scena per tradurre questi caratteri dell’essere della Chiesa, in direzione dell’agire di essa. “Mi è stato dato ogni potere (…) dunque andate!” (vv. 18-19). La parola potere può trarre in inganno. Non è il potere che si impone sugli altri, ma la forza che deriva dall’aver accettato tutto ciò che deriva dal proprio essere (etimo di potere v. 18). E ciò che deriva dall’essere di Cristo è solo una cosa, ben chiara: l’amore gratuito. Cristo presente nella Chiesa continua cioè ad essere colui che si dona, che non si impone, che si spende e che si contamina con gli uomini fino in fondo, non che li comanda per i propri intenti e li giudica sulla loro fedeltà al suo comando, come bravi soldatini.
Sulla base di questo tipo di potere viene detto alla Chiesa di muoversi, di compiere realmente il suo essere, cioè diventare missione. Una chiesa arroccata sul monte che non fa missione è già morta. Ma anche una Chiesa che vuole imporre nella missione la propria potenza tradisce sé stessa. La Chiesa è missionaria secondo il proprio essere, cioè secondo tre indicazioni di Mt.
La prima. A tutte le “etnie” (v. 19 originale). Cioè partendo dal presupposto che non esiste alcuna cultura e società che sia refrattaria al Vangelo. E che se, rispetto a qualche cultura o fase culturale, come per esempio quella attuale, non riusciamo a trovare la porta giusta per far risplendere Cristo, il problema è il nostro e non di quella cultura. Cattolico vuol dire questo: aperto a tutte le espressioni culturali, perché deve raccogliere da ciascuna ogni singolo frammento della bellezza di Cristo per ricondurli a unità. L’esatto contrario di chi intende per cattolico, solo quella forma culturale, degli ultimi secoli, in cui il cristianesimo si è realizzato spesso come cultura “esclusivista”. Ma allora, serve spendere tempo per gridare che quel cattolicesimo si è perso, rendendolo un idolo che sostituisce Cristo?
La seconda. “Battezzare” (v. 19) ha lo scopo di rendere possibile in tutte le culture che ognuno impari a custodire e coltivare con amore (etimo di osservare v. 20) tutte le volontà di Cristo (etimo di comandato v. 20). Cioè di incarnare Cristo in ciascuna cultura, non di strappare il battezzato alla sua cultura di origine. E questo proprio perché, quella formula liturgica che Mt trova celebrata e che ci consegna, affonda esattamente nell’amore dei tre Amanti assoluti, che sono sé stessi proprio vivendo nell’altro. L’esatto opposto del proselitismo, che vuole rendere l’altro uguale a me. Ma sappiamo fare missione così, senza pretendere che l’altro diventi come me, ma cercando dentro di lui ciò che ci unisce, affinché lui sia attirato a Cristo?
La terza. Questa missione è appoggiata sul potere di Cristo che è amore gratuito. Solo su quello i discepoli devono appoggiarsi, non su altro. Per questo lui garantisce la sua presenza fino al compimento di ogni sua volontà (letterale di sino alla fine v. 20) in questo tempo, proprio perché l’agire della Chiesa resti appeso solo a quell’amore. Infatti, quando ci appoggiamo ad altro stiamo davvero perdendo Cristo: Lui resta sì presente a noi, ma siamo noi che non siamo più presenti a noi stessi.
Gilberto Borghi