Quei conflitti dimenticati, che non possiamo più ignorare

Il rapporto Caritas sui conflitti dimenticati “Il ritorno delle armi. Guerre del nostro tempo” è un pugno nello stomaco per i comunicatori, ma anche per ogni cittadino che vuole la pace

Non possiamo fermarci all’onestà, senza cambiamento», ha detto il direttore di Caritas Italia Don Mario Pagniello in conclusione della presentazione dell’ottavo rapporto sui conflitti dimenticati, intitolato “Il ritorno delle armi. Guerre del nostro tempo” (ed. San Paolo 2024). E potremmo aggiungere: non possiamo fermarci al parlare della pace, senza fare qualcosa per costruirla.

Troppo spesso, infatti, credere nella pace e nella necessità di costruirla, significa trovarsi immersi in un frustrante senso di impotenza, confrontarsi con la difficoltà di passare dalle parole ai fatti, dall’onestà al cambiamento, quello vero.

IL TEMPO DELLE GUERRE

“Il ritorno delle armi. Guerre del nostro tempo”: il titolo nasce dal dato che attualmente nel mondo ci sono ben 52 Stati che vivono situazioni di conflitto armato. Ed è vero che nel 2021 (anno preso in considerazione nel precedente Rapporto sui conflitti dimenticati) erano 55, ma i conflitti di oggi sono ad altissima e alta intensità. Quelli di altissima intensità (cioè con oltre 10.000 morti) sono 4: i conflitti civili in Myanmar e in Sudan, la guerra tra Israele e Hamas e quella tra Russia e Ucraina. Le guerre di alta intensità (tra i 1.000 e i 9.999 morti) sono invece 20.

Nel 2023 i morti a causa diretta di azioni di guerra sono stati 170.700 (153.100 nel 2021), 11.649 i bambini uccisi o mutilati (+35% rispetto all’anno precedente). Quasi 300 milioni di persone nel mondo dipendono dagli aiuti umanitari, più di 74 milioni delle quali si trovano in Africa orientale e meridionale. La sola guerra in Sudan ha sprofondato nell’emergenza umanitaria 15,8 milioni di persone, di cui 3,5 milioni di bambini.

E in tutto questo, la spesa militare mondiale è salita al massimo storico di 2.443 miliardi di dollari, crescendo in tutti i continenti.

conflitti dimenticati

L’ottavo Rapporto Caritas sui conflitti dimenticati

I MEDIA E I CITTADINI

Cosa sappiamo di tutto questo? Poco, perché poca informazione ci danno i media, e in fondo poco vogliamo saperne noi.

Cominciamo dai media: secondo i dati rilevati dall’Osservatorio di Pavia e pubblicati nel Rapporto, nel 2023 i TG nazionali hanno dato 3.808 notizie riguardanti le guerre, cifra che corrisponde all’8,9 per cento di tutte le notizie (42.976). Qual è il problema? Che il 50,1% di queste notizie riguarda il conflitto tra Israele ed Hamas, il 46,5% la guerra in Ucraina e il restante 3,4% è distribuito su 15 Paesi in guerra. Praticamente niente. Inoltre, in un anno non hanno avuto nessuna copertura mediatica 6 Paesi anch’essi in guerra (Bangladesh, Etiopia, Guatemala, Honduras, Iraq e Kenya).

Perché tanto spazio all’Ucraina e a Israele-Hamas? Perché i criteri di notiziabilità vincenti sono la vicinanza geografica e le ricadute sul nostro Paese: come ha detto Maria Sabrina Tittoni di Demopolis, non ci interessa la sofferenza che le guerre provocano, ma l’aumento dei prezzi e l’inflazione, la crisi energetica, eccetera.

Da una parte dunque c’è un sistema mediale che “dimentica” guerre e conflitti, dall’altra c’è un pubblico che non appare molto interessato ad andarsi a cercare le notizie. Il rapporto ci dice che il 24% del campione, quando si informa, si interessa solo ai fatti locali o regionali, Il 41% ai fatti che riguardano l’Italia e solo il 35% ai fatti che riguardano l’Europa e il resto del mondo. Basti pensare che il 29% (quasi uno su tre!) degli italiani non è in grado di indicare una guerra in corso. E il fatto che nel 2021 quest’ultima percentuale fosse del 18% è una magra consolazione.

Insomma, i media danno ai cittadini quel (poco) che chiedono, i cittadini si accontentano di quel (poco) che ricevono. Del resto, ha detto Mons. Carlo Maria Redaelli «10 persone sono nomi, centinaia di migliaia restano un numero». Non coinvolgono, non commuovono. A meno che, aggiungo, non facciano aumentare il prezzo del gas.

LA CHIESA, PROFETA DI PACE

Eppure gli italiani sembrano un popolo pacifico: quattro su cinque sono convinti che le guerre siano evitabili e non legate in modo indissolubile alla natura profonda dell’uomo. Di conseguenza mantengono una certa fiducia nel ruolo della comunità internazionale per prevenire conflitti e guerre e per mediare tra le parti in conflitto: il 72% è favorevole a potenziare il ruolo dell’Onu e il 74% non vuole interventi armati, ma interventi di mediazione.

Non credo che quei cittadini che si interessano alle notizie locali e al massimo regionali sappiano che il Servizio per gli interventi caritativi per lo Sviluppo dei Popoli della Conferenza episcopale italiana nel 2003 ha finanziato 1.351 progetti in 28 Paesi interessati da conflitti a estrema o altra gravità. E che sul totale dei 2.321 progetti complessivi finanziati dalla Cei, oltre la metà (58,2 per cento) ha riguardato Paesi in guerra (57,6 per cento dei fondi erogati). Ma è una buona notizia il fatto che alla domanda «qual è la voce che più spesso si alza e crea attenzione in questi situazioni di crisi contro la guerra e contro l’ingiustizia?», il 57% degli italiani risponde il Papa e la Chiesa Cattolica (seguono le Ong con il 41% e l’Onu con il 26%), anche se intristisce che l’Unione Europea sia citata solo il 12% delle volte e che il governo italiano ottenga un misero 4%. Nella percezione degli Italiani non contano.

Che fare dunque? Intanto parlare, raccontare informare. Il Rapporto sui conflitti dimenticati non è un pugno nello stomaco solo per i giornalisti e gli operatori della comunicazione, lo è anche per la Chiesa. La gente deve sapere, deve conoscere. «Dalla bulimia mediale nasce una anoressia conoscitiva», ha ricordato Vincenzo Corrado: sommersi come siamo di input comunicativi scrollati sui social, non sappiamo più distinguere ciò che è importante da ciò che non lo è, e soprattutto non sappiamo andarcele a cercare, le notizie importanti.

Sempre per costruire conoscenza, ma anche per formare quelli che papa Francesco ha definito artigiani di pace, secondo Paolo Beccegato occorre costruire percorsi di pace alla luce dei 4 pilastri indicati dalla “Pacem in Terris”: verità giustizia, carità, libertà. Percorsi da vivere nelle comunità ecclesiali, nelle scuole, nei quartieri. Perché per cominciare ad agire bisogna prima aprire gli occhi. Allora forse, potremo passare dal pronunciare buone parole (che comunque non è poco) ad essere attori di cambiamento.

Paola Springhetti