Preghiera e politica

1 Una dialettica aperta e complessa, da non semplificare

Durante un convegno diocesano, mons. Giovanni Nervo, a chi chiedeva cosa fare nei rapporti con i politici, rispose: «Pregare per loro, pregare per noi!» Non era una battuta. Spiegò che la comunità cristiana e la politica hanno un rapporto dialettico, che nella preghiera trova il suo vertice. Anche nella Scrittura si trova l’invito a «pregare per coloro che ci governano» e, però, leggendo e rileggendo la Bibbia trovi precise distanze da ogni forma di idolatria, a iniziare dal potere politico esercitato in modo prepotente, che permettono di pensare la preghiera come un luogo in cui continuamente imparare a «dare a Dio quel che è di Dio» – il primato, l’adorazione, la fiducia massima, che apre a una speranza sicura radicata in un Dio affidabile nell’amore – e «a Cesare quel che è di Cesare» – un rapporto fatto di diritti e doveri e di rispetto delle leggi. Che permettono di cercare una giustizia legata alla valenza contestuale e contingente delle leggi, ma anche – grazie a quella comprensione delle Scritture in cui ci aiuta il magistero dei profeti – alla possibilità/necessità di miglioramento, in tensione verso la misura più alta della giustizia di Dio che può prevedere anche una motivata e coerente obiezione di coscienza.

Per altri versi “pregare per i politici” significa pregare per noi, secondo la consapevolezza greca che il politico è chi pensa alla polis, mentre l’idiotès è chi pensa a se stesso. Ritrovandoci nella preghiera con più verità, possiamo meglio comprendere che la nostra fede in Dio ci chiama a responsabilità verso la città nell’attesa della città futura che «scende dall’alto», e questo ci qualifica in modo più articolato come politici: come cittadini che hanno la patria nei cieli, impegnati con tutti, chiarendo con Santa Caterina che, ai governanti, «la città è prestata». E quindi, pregare per i politici, significa pregare anche per noi, per essere all’altezza delle nostre responsabilità storiche e viverle con coraggio e stili evangelici.

Mi sembra bello quanto scrive Mons. Mariano Crociata nella lettera pastorale del 2023 “Insegnaci a pregare”: «La formula che mette insieme preghiera e politica può risultare stridente e disturbante, poiché siamo abituati a pensare le due cose radicalmente estranee l’una all’altra e incomponibili (e per molti versi in effetti lo sono). Ciò che però tale accostamento dice senza mezzi termini è […] che la fede, e quindi la preghiera che la esprime, non sono fuori dalla vita, dalla società, dal mondo. Non si crede per astrarsi dalla storia ma per assumerla e farsene carico. Il Figlio di Dio non si è fatto uomo per finta o in apparenza, non ha coltivato una spiritualità e una preghiera fuori dal mondo, ma ha impastato, per così dire, la divinità con la storia degli uomini e delle donne, con i loro problemi e i loro successi, con le loro scelte e i loro errori, mettendo tutto in relazione con Dio perché la vita donata dal Creatore ritrovasse il suo splendore originario o almeno la possibilità di essere riscattata e salvata».

2. Lex orandi, lex credendi, lex operandi

Mettere in rapporto preghiera e politica ci impegna allora a chiederci di quale preghiera stiamo parlando e quale modalità nel vivere la fede esprime ogni volta la preghiera. Dobbiamo dirci con franchezza che molta preghiera non è cristiana, non passa per Cristo, e quindi sopporta e supporta rapporti ambigui con la politica. Al fondo ci sta una fede ridotta a sacralità, a ritualismo, ad esteriorità, incapace di un discernimento che permettono solo un rapporto vivo con la Parola e i poveri e una celebrazione vera dell’Eucaristia. Da questo punto di vista quando si fanno analisi su come i cattolici danno il voto o su adempiono ai propri doveri di cittadini appare chiaro che c’è un problema serio di autenticità, che tocca le gerarchie come la base. E diventa cartina di tornasole dell’autenticità proprio la preghiera. Preghiere astratte, in terza persona, dicono già il tradimento della preghiera come relazione con il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di Gesù… Ancor più preghiere slegate dalla Bibbia e della storia: generano, cristallizzano e coprono spesso tanta immaturità, tanta incoerenza, tanta ipocrisia.

La vera preghiera nasce da una fede viva e che cambia la vita, e quindi i rapporti con la politica. Pensiamo a Giorgio La Pira: lui era diverso come politico perché il suo impegno nasceva dalla mistica, da un altrove – dice E. Balducci – fatto di poveri e monache di clausura. Ė commovente quando Giorgio La Pira afferma che la sua preghiera cambiò diventando sottosegretario al lavoro: da un esame di coscienza su piccole mancanze personali a un esame di coscienza come colloquio vivace con Dio («mi ci arrabbio») e con se stesso («mi chiedo se non potevo fare di più»). Penso anche alla lettera di don Milani a Pipetta: resta accanto a lui quando lotta per il pane (pur desideroso di dargli quell’altro Pane) ma, quando avrà sfondato il cancello del padrone e si sarà insediato al suo posto – scrive Milani – «non mi troverai al tuo fianco, ma nella tua casa puzzolente davanti al mio Signore Crocifisso».

Ecco: la preghiera autentica ha bisogno di tenere vivi questi due poli: 1) un Dio con cui si entra in rapporto vivo (per cui è sempre preghiera con un “tu”); 2) una coscienza che si apre veramente a Dio (per cui è sempre coscienza che si interroga, si affida, compie scelte pensate e ha capacità di esporsi, quando è necessario, nel «coraggio di una vita pubblica», come scrive Dietrich Bonhoeffer). Il punto più chiaro diventa questo: quanto più si prega con verità, quanto più si entra nelle logiche di Dio, tanto più si assumono e si fanno proprie le distanze di Gesù rispetto «a quella volpe di Erode» o si sta, come Lui, «di fronte» a Pilato (e non sotto!), come racconta Giovanni e come ci ricorda la lettera a Timoteo.

3. Se si sceglie il primato della Parola

Qualifica la preghiera nel rapporto con la politica anzitutto la consuetudine con la Parola. Già sul piano della formazione e del vissuto. Avendo per necessità inserito nella Cooperativa con Puglisi un direttore ne abbiamo trovato una proveniva da un movimento che media la Parola con messaggi umanistici e celebra eventi dove la politica italiana va vetrina: abbiamo avuto una grande difficoltà a capirci sul rapporto con i potenti, sui modelli economici (economia civile che tutto informa o solidarietà solo come beneficenza ma operare come impresa «a cui ogni metro quadro deve fruttare»? agire cooperativo orizzontale o agire gerarchico/autoritario – paternalistico? Ed ho capito meglio che nella Don Puglisi si conservano distanza e rapporto dialettico con i potenti (che certo reagiscono) e viene spontanea l’orizzontalità che rende i compiti servizio, nella misura in cui si custodisce un rapporto diretto con la Parola nella preghiera e nella lectio, cercando di lasciarci ispirare e verificare nelle scelte concrete.

Ed è bello, anche se non so quanto attuato, quello che hanno detto i vescovi nel documento sulla parrocchia di qualche anno fa sul rapporto tra ascolto della Parola, «con rispetto (del testo) e legame con la vita» e la possibilità di mostrare chi è il «vero Signore» in quel territorio. Accadde nella vicenda di don Puglisi. Proprio perché uomo di preghiera ha vissuto la libertà dai poteri mafiosi (e delle loro connessioni con la politica) e la fedeltà al Vangelo e a quanti gli erano affidati passata per la preghiera stessa di Gesù al Getsemani: nella cappella della Casa don Puglisi conserviamo una traccia di omelia sul Padrenostro del luglio 1993 con appuntate due intenzioni di preghiera: «perché mandi operai nella tua messe», «per i persecutori». Era la stessa domenica quando disse: «Uomini della mafia venite a parlare con me, noi operiamo per il bene dei vostri figli, i cui nomi sono iscritti nel registro dei battesimi».

«Scegliere il primato della Parola – ha ricordato al Sinodo della mia diocesi don Giuseppe Ruggieri – non è un dato tranquillo che lascia tutto il resto com’è. Non è un’attività pastorale in più, per cui accanto alle novene e ai tridui, si aggiunge adesso la riunione sulla Bibbia. Chi ha fatto seriamente quella scelta, sa che molte cose verranno a cambiare nella propria vita e nella pastorale. Chi recita il salmo 50 e dice con il cuore che Dio non accetta sacrifici e olocausti esteriori, chi dalla lettera agli Ebrei ascolta che è l’unico sacrificio del Cristo, quello del suo corpo e della sua obbedienza, che permette di entrare nel santuario celeste, non può lasciare che tutte le incrostazioni devozionali, le abitudini che allontanano dal centro della fede, restino al loro posto. […] Quando una Chiesa fa la scelta per il primato della Parola e del Vangelo, per la centralità dell’Eucaristia, per una catechesi soprattutto biblica, fa una scelta per la propria collocazione nella società e per lo stile dell’annuncio e della testimonianza del Vangelo agli uomini. Significa che questa Chiesa si affida alla potenza del Vangelo e della grazia e non alla potenza e alla ricchezza dei propri mezzi, che sceglie non il primato delle opere e dell’organizzazione, ma quello della povertà, della preghiera e della testimonianza». Ecco allora: primato della preghiera (con al centro la Parola) sulla politica, non per fuggire il mondo ma per sempre restare libere dalla mentalità mondana.

4. Se si vive con pienezza il mistero eucaristico

Fonte e culmine della vita e preghiera cristiana è la frazione del pane, la cena del Signore, l’eucaristia! Scriveva don Giuseppe Dossetti: «[Nell’Eucaristia] la Chiesa si realizza nel suo atto più perfetto e completo in terra, l’atto che precede, per così dire, che giunge quasi al limite dell’atto eterno, e quindi tale assemblea è il modello, l’archetipo che possiamo avere presente della realtà più profonda della Chiesa e perciò anche delle linee fondamentali della sua struttura. […] La scelta del centro permette di trovare l’equilibrio della vita cristiana che supera le false opposizioni tra azione e contemplazione, tra dimensione presente e dimensione escatologica della Chiesa. [… Nell’Eucaristia converge] la storia, quella vera, non curiosa, la storia della salvezza: di tutti gli uomini, e soprattutto la storia degli umili, dei poveri, dei piccoli, di coloro che non hanno creatività o sono impediti dall’esplicarla (e sono certo la maggior parte degli uomini), che sono dei “senza storia”» .

Cosa genera, nel rapporto con la politica, la preghiera che trova il culmine nell’eucaristia, che contributo dà a una speranza incarnata nella storia? Per Dossetti si genera «una politicità tutta sui generis, che non governa e non ha potere, che non muove verso gli altri per quello che hanno di appetibile, ma unicamente per quello che sono in mysterio (anche se poveri, deformi, incoscienti, in tutto inappetibili): cioè non incontra l’uomo dall’esterno e in superficie, ma lo incontra nel suo “sé” più intimo, più invisibile, più pneumatico, creando e divulgando ovunque […] un’atmosfera di rispetto, di comprensione, di fiducia, di valorizzazione degli esclusi, di amore-oblativo – da ogni condizione esterna mutevole – che “non avrà mai fine” (1Cor 13,8)» .

Certo questo si misura sempre con una situazione storica difficile ma diventa motivo di speranza nella logica del lievito e del sale della terra: «Il peccato che è nell’uomo decaduto si ritrova anche nelle sue città e nelle forme sociali più vaste e complesse: […] l’ambizione prevaricatrice, l’avidità di illimitati guadagni, il lusso spettacolare, la lussuria sempre più cupida di ogni perversione. […] Dal cristianesimo, e in particolare dall’eucaristia, può venire a un mondo spesso disperato un invito e un supplemento di speranza». Certo nelle celebrazioni ancora siamo lontani da una verità piena, ma abbiamo esempi belli. Pensiamo alle eucaristie di mons. Oscar Arnulfo Romero, come lui stesso le presenta: «Vibrano canti esplosivi di gioia – vado a riunirmi con il mio popolo in cattedrale – con mille voci ci riuniremo in questo giorno per cantare la festa patronale. […] Ma gli dei del potere e del denaro si oppongono alla trasfigurazione – per questo, ora, Signore, siate voi il primo ad alzare il braccio potente contro l’oppressione!» .

E insieme all’Eucaristia i luoghi e i carismi contemplativi e la preghiera di intercessione (noi abbiamo celebrato nei cantieri educativi la “messa per la città” prolungata nell’adorazione con intenzioni generate dalla vita). Come scrive il giornalista e psicanalista Marco Garzonio: «La preghiera può salvare la città, dice la Genesi. Attraverso la preghiera di intercessione Abramo osa mettersi in mezzo tra il Signore e Gomorra. Pregare nella città, con la città, per la città è una sfida per i cristiani. Lo è a proposito della preghiera intima del cuore, che ha bisogno di spazi di silenzio, laddove sinonimo di metropoli è invece rumore, traffico, fretta. […] Ed è una sfida la preghiera corale, quella che culmina nell’invito di Gesù a rivolgerci al Padre dicendo: “Sia fatta la tua volontà”. Come Abramo, allora, che intercede e poi confessa: sia fatta la tua volontà. Il pregare è forse la virtù metropolitana più impegnativa».

5. Se i poveri sono luogo teologico

Parola, eucaristia, poveri, fraternità sono le cose essenziali della fede e, quindi, c’è da verificare anche questa valenza nel rapporto tra preghiera e politica. I poveri sono, come la Scrittura ci dice e l’assistenzialismo nega, un luogo teologico che impegna alla prossimità, entro cui la politica – intesa come servizio per il bene comune a partire dagli ultimi – diventa la «forma più alta di carità». Scrive ancora Mons. Crociata nella sua lettera pastorale sulla preghiera: «Il credente discepolo di Gesù è uno che sente e coltiva una passione per il bene e la vita dell’umanità intera, a cominciare dai più vicini e, tra di essi, da quelli che si trovano in difficoltà, che fanno più fatica, che patiscono le ingiustizie degli uomini e le ingiurie delle malattie e delle avversità. Per questo quando egli prega, non si rende o, se lo è stato, non rimane avulso dai drammi dell’umanità vicina e lontana, e nemmeno dai suoi progetti e dalle sue speranze. Porta tutto dentro la sua preghiera, perché se crede davvero, sa che i drammi, le fatiche, le speranze del mondo intero toccano e trovano posto innanzitutto nel cuore di Dio. Il credente questo lo sa e non si sogna di chiudersi al cuore di Dio, perché sarebbe un affronto e un tradimento, ma con la preghiera lo fa suo e implora quel bene che il Padre vuole per tutti i suoi figli, nessuno escluso, arrivando a trasformare la sua preghiera in molla per agire, nei modi e nei tempi che sono consoni a ciascuno. La preghiera è luce e guida anche nell’esercizio della responsabilità civica e nell’impegno sociale e politico per il bene comune».

Non ci può essere evasione dalla storia, e quindi dalla politica, come scriveva La Pira: «Non basta (come fa la stragrande maggioranza) dire: Signore Signore! Non basta essere iscritti all’Azione Cattolica (per fare i candidati) o alla D.C. (per fare i deputati e cercare favori); no: la politica è l’attività religiosa più alta, dopo quella dell’unione intima con Dio: perché è la guida dei popoli! Il mandato di Gesù a Pietro (pasci i miei agnelli) è anche, in certo modo, diretto ai capi politici: essi pure sono chiamati a pascere il popolo cristiano, che è popolo di Dio: mihi fecisti. […] Una responsabilità immensa, un severissimo e durissimo servizio che si assume: non negotium sed ministerium».

Soprattutto, nella frequenza dei poveri attraverso relazioni che ne riconoscono la valenza teologica (la preferenza per loro rivela l’agire di Dio, da che parte sta Dio), noi impariamo le giuste distanze dei potenti e non dimentichiamo quella tensione escatologica che è essenziale al cristianesimo. Ricordo una anziana signora semplice ma sapiente, che prima di fare la comunione, sentiva il bisogno di dire: «Burrasconi (traduzione in modicano di un nome milanese) sa mangiatu l’Italia, u Signuri sa puttari», «Bush nunne po’ mannari a morri in guerra, sunu figghi di mamma». E da noi qualche anziana continua a dire «U Signuri sapi», «U Signuri viri». Tra i poveri i migranti sono coloro che ci ricordano che siamo tutti in cammino e che ogni cammino, soprattutto di fronte a violenze e ingiustizie dei faraoni, deve diventare un esodo e una consapevolezza sul “già” e “non ancora” del regno che viene.

Nella tasca di un migrante, Tesfom Tesfalidet, morto all’ospedale di Modica per le torture subite in Libia, è stata trovata una poesia che legge con lucidità la storia nel suo compimento, in linea il Magnificat: «Tempo sei maestro / per chi ti ama e per chi ti è nemico, […] Ogni giorno che passa, gli errori dell’uomo sono sempre di più, / lontani dalla Pace, / presi da Satana, / esseri umani che non provano pietà / o un po’ di pena, / perché rinnegano la Pace / e hanno scelto il male. / Si considerano superiori, fanno finta di non sentire, / gli piace soltanto apparire agli occhi del mondo. / Quando ti avvicini per chiedere aiuto / non ottieni nulla da loro, / non provano neanche un minimo dispiacere, / però gente mia, miei fratelli, / una sola cosa posso dirvi: / nulla è irraggiungibile, / sia che si ha tanto o niente, / tutto si può risolvere / con la fede in Dio. / Ciao, ciao/ Vittoria agli oppressi». L’altra poesia di Tesfom Tesfalidet contiene una domanda: «Se siamo fratelli, perché non chiedi notizie di me?», a dirci la concretezza e verità di quella fraternità che ha anche una valenza politica (è la terza parola della rivoluzione francese, quella che è stata meno realizzata e che sa però di futuro!) e che diventa tutt’uno con il chiamare Dio Padre nostro: i poveri ci chiamano alla comunità, cuore della politica; i poveri ci chiamano a riconoscere il Padre comune, cuore della preghiera!

6. Quello che allora possiamo offrire alla politica come cristiani che pregano

La forza con cui Parola, Eucaristia, poveri autenticano la preghiera e aprono a un rapporto a sua volta autentico con la politica ci suggerisce ciò che, di proprio, i cristiani possiamo offrire: non una presenza organizzata ma un lievito, una luce, il suggerimento di ciò che sana alla radica la politica. Qualche anno fa in un incontro regionale sulla pastorale, ebbi a dire che è finito il tempo della cristianità e dell’organizzazione dei cristiani in politica. Questo non è un dramma ma una purificazione, un invito a tornare al modello della Chiesa apostolica, a vivere al modo Iesu «a cercare insieme a tutti la giustizia e la pace senza progetti nostri ma con la misura del Crocifisso [come abbiamo detto nel Sinodo della mia diocesi nel 1986, alla decisione quarantottesima]». Senza «chiedere nulla a Dio, ma solo sperando di potergli dare una mano» – come amava dire Etty Hillesum.

La grande offerta al mondo è quello di cristiani che, pregando, aiutano a liberare in profondità la politica dalle sue ambivalenze e generano una politica diversa grazie al primato dell’uomo interiore, come ebbe a suggerire Dossetti nel discorso per Lazzati “Sentinella quanto resta nella notte?”. Occorre pensare «non a una presenza dei cristiani nelle realtà temporali e alla loro consistenza numerica e al loro peso politico, ma a una ricostruzione delle coscienze e del loro peso interiore, che potrà poi, per intima coerenza e adeguato sviluppo creativo, esprimersi con un peso culturale e finalmente sociale e politico. Ma la potenza assolutamente indispensabile oggi mi sembra quella di dichiarare e perseguire lealmente – in tanto baccanale dell’esteriore – l’assoluto primato della interiorità, dell’uomo interiore [non trascurando virtù come la fortezza e la giustizia]. Ma per questo ci vogliono dei battezzati formati ad essere e ad agire nel tempo continuamente guardando all’ultra-temporale, cioè abituati a scrutare la storia, ma alla luce del metastorico, dell’escatologia» .

Per questo sono necessari esercizi di discernimento e di obbedienza alla Parola. Lo esplicito con due citazioni di Giorgio La Pira. Sul discernimento, mi sembra bello quando ricordava che «due sono i libri sacri da leggere: il tempo presente, con i suoi movimenti, le sue ansie, le sue profondità difficili da sondare – storiografia del profondo – L’altro libro da leggere è la Bibbi, il libro che contiene la chiave dell’interpretazione storica. Non si capisce niente senza di esso». E sulla capacità della preghiera di plasmare la vita, ecco quando aveva capito già da giovane: «Una volta che si è convertita la vita nostra al Dono divino si apre in noi una straordinaria lucente prospettiva. Dal momento che una adesione verace ci ha fatto riconoscere la Rivelazione non si può più vivere come prima: è conseguenza ineluttabile che se l’adesione è verace tutte le prospettive umane si mutino e si coloriscano di divino: e questo splendore interiore – se c’è – è uopo che si manifesti al di fuori con la sua azione purificante: se l’uomo opera in seno all’assemblea umana è conseguente che la sua azione sia accesa di divino».

7. Il possibile incontro fecondo, senza cadere negli umanismi: la traità

Con questa fede matura, con una fede «che ama la terra» (Karl Rahner), possiamo anche ritrovare un terreno fecondo di incontro tra una fede vera e una politica vera. Diventa per questo interessante quanto scrive Hanna Arendt sulla politica: «[Essa] si fonda sul dato di fatto della pluralità degli uomini, tratta della convivenza dei diversi, e si afferma come relazione». Commenta Luciano Manicardi: «In quella relazione, in quel “tra”, nello spazio vuoto tra gli uomini, tra me e l’altro, tra me, l’altro e il terzo, tra noi e gli altri, dunque nello spazio interpersonale e sociale, la politica incontra anche la dimensione spirituale». La traità diventa una radice comune da cui si generano una preghiera e una politica segnate dalla relazione e dall’apertura all’inedito, alla dimensione spirituale. Preghiera e politica allora si incontrano – sempre secondo Luciano Manicardi – oltre che nella comune sorgente della traità, anche negli orizzonti dell’immaginazione, della creatività, del coraggio!

«L’immaginazione – scrive Manicardi – crede nel futuro e apre una strada: e pensa che ciò che non è possibile oggi lo potrà essere domani. In questa essa è attività spirituale con grande potenzialità di impatto storico e politico. Certo, l’immaginazione dovrà sempre incontrarsi con la realtà e misurarsi con essa e registrerà sconfitte e vittorie: non tutto potrà essere realizzato, o realizzato subito, certe cose lo potranno, ma si dovranno trovare i modi e i tempi adeguati e dovranno essere bocciati i modi inadeguati ed evitati i tempi affrettati: l’uomo volerà ma non applicandosi sulle spalle le ali come Icaro. L’utopia non dovrà pervertirsi in ideologia, ma restare a servizio della realtà e non cercare di piegare la realtà al proprio progetto ideale».

Quindi la creatività come «capacità di vedere e di rispondere». La preghiera e la politica diventano insieme polarità di un occhio che si esercita per scrutare i segni dei tempi, di una mente che elabora con sapienza e lungimiranza, di un cuore che agisce con prontezza e concretezza. Per questo c’è bisogno di stupore generato dal senso della bellezza, di concentrazione che nasce dalla responsabilità a fare bene le cose, da quella originalità che converge in una polifonia di intenti per il bene comune. Attraverso continue rinascite, oltre le trappole della rassegnazione o del “si è fatto sempre così”. A Como un gruppo di giovani ha avviato un percorso e scritto un libro molto bello, con riflessioni lucide e pacate ma anche con un tono complessivo di fiducia è responsabilità dal titolo “Ė ancora possibile una buona politica?”, condensando la risposta nell’impegno a costruire «strade e pensieri per il domani». Il coraggio nasce dal mettere in campo immaginazione e creatività per maturare decisioni che articolano insieme libertà e dovere. Un coraggio che si esercita anzitutto nella quotidianità in cui la politica è cittadinanza onesta e seria e che la preghiera dei salmi nutre.

Scrive ancora Luciano Manicardi: «Il coraggio diviene pure coraggio della normalità che è anzitutto il coraggio civico di fare il proprio dovere. Quando il clima sociale è ammorbato dall’illegalità diffusa, dalla volgarità imperante, dalla furbizia eretta a sistema, dal carrierismo senza scrupoli, dalla logica del profitto ad ogni costo, dall’asservimento al potente di turno, allora il compiere con onestà e responsabilità il proprio dovere senza guardare in faccia a nessuno, senza fare piacere ai potenti, senza cedere nella tentazione di guadagni illeciti e facili, diviene coraggioso, esposto cioè alla derisione e al disprezzo, all’incomprensione e all’emarginazione. Si rischia di passare per erosi semplicemente perché si fa il proprio dovere senza deflettere» . E però solo questo coraggio «è memoria di qualcosa di radicalmente umano: il non calcolabile, l’incertezza. Il coraggioso accetta la vulnerabilità, la povertà e la fallibilità della condizione umana. Egli conosce la paura e la sente, ma l’affronta. Soprattutto, tra la paura di perdere qualcosa di sé nell’oggi con l’azione coraggiosa e la paura di sapersi vile nel domani se a tale azione si sottrae, egli sceglie l’azione rischiosa, la quale altro non è che l’azione responsabile».

Azione responsabile che la mistica, come capì Edith Stein, rende sostenibile quando la notte è oscura. «Per lei i soggetti che “hanno sperimentato lo sbocciare di una vita nuova, superiore e più potente”, vivono una vita spirituale in cui ciascuna/o “dà interamente il suo sé senza perderlo”, facendosi mediazione benedicente e benefica. L’atteggiamento si fa dunque “sempre più puro e più realistico” e porta a una notte che non inghiotte le cose: alla notte oscura e inospitale fa riscontro la morte incantata del chiaro di luna, bagnata di mite e tenera luce. Questa non inghiotte le cose, ma fa invece risaltare il loro aspetto notturno. Ogni durezza, angolosità e tagliente spigolosità delle cose risulta smussata e addolcita; si rivelano le linee essenziali che nella luce chiara del giorno non si riescono mai a cogliere».

Ed ecco che preghiera e politica convergono su quella notte del Getsemani dove Cristo continua a vegliare per l’umanità e dove i credenti vanno per essere partecipi delle sue sofferenze; ed ecco che l’azione responsabile e la preghiera fiduciosa aiutano a gettare uno sguardo oltre e sostengono una «speranza contro ogni speranza» che i poveri della terra continuano a donarci insieme ai martiri e ai testimoni. L’alba verrà, ma al momento la domanda – nella preghiera e nell’azione politica vissute come porta e come via della speranza cristiana – continua ad essere: «Sentinella quanto resta nella notte?». Una domanda fiduciosa e trepidante che apre ad un operare vigile, disincantato e tenace che, dal basso, tanti esploratori attivano e sperimentano attraverso processi generativi, mentre nella liturgia annunciano con fede e speranza la morte e resurrezione del Signore «nell’attesa della sua venuta»!

Maurilio Assenza
Mercoledì della spiritualità 2024 della Fraternità Carmelitana di Barcellona Pozzo di Gotto