Parrocchie 2050: a qualcuno interessa?

I Sinodi possono essere l’occasione per pensare e costruire la comunità del futuro, ma ne siamo poco consapevoli perché, in fondo, non abbiamo più né coraggio né idee (e nemmeno, forse, fede).

In tutto questo gran parlare (ma non ovunque) di Sinodo, e non sempre conseguente fare, come ormai è sotto gli occhi di tutti quanti vogliano semplicemente osservare, c’è una frase assai nota di Alcide De Gasperi (che la derivava dal teologo americano James Freeman Clarke) che mi torna: «Un politico guarda alle prossime elezioni. Uno statista guarda alla prossima generazione». Parafrasiamola nel nostro contesto ecclesiale: «un amministratore guarda al prossimo anno, un vescovo profetico guarda alla prossima generazione». Perché è indubbio che nei piccoli cabotaggi argomentativi che costellano le rotte verso il sinodo, non c’è un respiro temporale ampio. Un Sinodo – penso, ad esempio a quello italiano – non si ripeterà nel giro di pochi anni: ne siamo consapevoli? Allora è questo il momento per pensare con coraggio a quello che sarà la nostra Chiesa, la nostra parrocchia, la nostra comunità tra 30 anni. Quanti, come, dove saremo nel 2050? Invece lo sguardo di troppi timonieri (con poche apprezzatissime eccezioni, a partire dal Papa) ha una limitatezza sconfortante. Sarà forse perché molti pastori non hanno contezza della vita concreta dell’umanità di oggi (facciamoci male: diamo un occhio ai video realizzati per l’Anno della famiglia Amoris laetitia, video che così bene dipingono il Mulino Bianco cattolico); sarà per motivi anagrafici (un vescovo di 70 anni ha desiderio, sprone, interesse ad aprire un cantiere se dopo 5 anni sarà a riposo? Ma qui si aprirebbe un altro tema: per forza bisogna ordinare vescovi in un’età in cui nel mondo solitamente si va in pensione?). Sarà che il terrore regna sovrano, perché chissà quale pericolo corrono le anime se si vanno a toccare questioni di sostanza e non i belletti e le ciprie; sarà che forse la classe dirigente ecclesiale è come quella civile, ossia non così preparata; sarà forse un fatto di scarsa fede nello Spirito, che ci piace citare ma meno ascoltare nella realtà vissuta, quasi convinti che la storia non sia più abitata dal suo soffio… fatto sta che non si riesce a immaginare una comunità tra trent’anni, una parrocchia nel 2050, una chiesa che varchi la metà del secolo.

Solo in Italia, se le cose non cambiano, avremo un forte decremento demografico: una paese sempre più vecchio. Se già oggi non riusciamo a parlare ai giovani (nonostante un Sinodo su cui forse tacere è carità), come parleremo a loro fra due o tre decenni, quando anche la ‘generazione di mezzo’ sarà esigua? Perché non riusciamo a dare spazio nella nostra Chiesa ai giovani come sono, e non come vogliamo che siano? Complementare a questo: che cura, che accompagnamento pastorale saranno riservati agli anziani sempre più numerosi, in una società che si frantuma in individualismi e solitudini crescenti? E cosa potremo dire a livello antropologico, in anni di postumanesimo rampante e di avanzamento della medicina, che porrà questioni urgentissime?
Inoltre, come ha ricordato Maria Elisabetta Gandolfi su Re-blog, sono solo 600 i sacerdoti minori di 30 anni: quanti saranno nel 2050? E quanti, semplicemente, saranno i sacerdoti? Il coordinamento laicale, le divisioni dei ruoli e dei compiti nelle comunità sarà una necessità: perché non pensare, provare, correggere anche, prima che la realtà arrivi (e ci colga alla sprovvista)?

Ancora: già prima del covid, i matrimoni civili erano numericamente più consistenti di quelli religiosi (secondo l’Istat erano il 52,6%nel 2019), seguendo una tendenza sempre più marcata di eclisse del matrimonio religioso. Sempre nel 2019, nel totale dei matrimoni, il 20% erano seconde nozze per almeno un coniuge. Le convivenze aumentano (più di un milione, quadruplicate in vent’anni): che tipo di pastorale familiare vogliamo pensare e attuare, che tipo di effettiva accoglienza e ascolto la comunità cristiana può e vuole realizzare verso quanti non scelgono il matrimonio cristiano? E verso coloro che lo scelgono e lo vivono, figli del XXI secolo? O desideriamo compiacerci con gazzose zuccherate e barattoli di miele familiare, quadretti edificanti che parlano alla minoranza della minoranza della minoranza?

Pensiamo poi ai campi della cultura, dell’economia, della politica: quali presenze, testimonianze possiamo e vogliamo vivere, in un contesto sempre più confuso, globale, disuguale, disumano? Certo, ci mancano pensieri e pensatori fondativi alla Mounier, ad esempio (Esprit è del 1932) o alla Maritain (Umanesimo integrale è del 1936), capaci (loro) di leggere i segni dei tempi e avanzare profezie di cristianesimo impegnato nel mondo del loro tempo, il Novecento. E noi? Diamo occasione al pensiero di costruire, diamo legittimità alla freschezza di idee? Viviamo nel coraggio o solletichiamo chi ci conferma, chi ci compiace o chi ci inquieta giusto il minimo per farci sentire sulla cresta dell’onda?

Da qui a tre anni ci giochiamo molto di quello che sarà la nostra Chiesa dei prossimi decenni: sentiamo tutto il peso e tutto l’ardore di un compito affascinante e grande, o tiriamo a campare, in attesa di far passare la nottata? Abbiamo il coraggio di pensare ai cristiani del 2050, alla prossima generazione?
Pochi giorni fa è stato nominato il gruppo di coordinamento del cammino sinodale italiano. La speranza è che queste e altre questioni tolgano un poco il sonno ai suoi 13 membri.

SERGIO DI BENEDETTO