Dal Meeting di Rimini voci di speranza dall’abisso del malessere giovanile. Don Claudio Burgio: “I nostri ragazzi mandano in crisi la cultura degli adulti fondata sulla prestazione ed è un bene che vada in crisi”.
La fatica di essere giovani. Questo titolo ha raccolto ieri il pubblico del Meeting di Rimini attorno a un dibattito coinvolgente e a molte voci.
Moderati da Elisabetta Soglio, curatrice dell’inserto Buone Notizie del Corriere della Sera, sono intervenuti: Alberto Bonfanti, presidente Portofranco; don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano; Daniela Lucangeli, professoressa di Psicologia dello sviluppo e dell’educazione, Università degli studi di Padova; Dario Odifreddi, presidente della Piazza dei Mestieri.
L’introduzione è stata affidata a Stefano Gheno, presidente Cdo Opere Sociali. A lui il compito di mettere a fuoco il tema. “Pensando al titolo del film dei Fratelli Coen ‘Non è un paese per vecchi’, potremmo dire che l’Italia non è un paese per giovani”, ha dichiarato Gheno. “Purtroppo – ha proseguito – in Italia come in altri paesi decide la maggioranza. E i giovani sono in minoranza“.
E quella dei giovani ci viene raccontata come una minoranza afflitta da un male di vivere che la pandemia ha acutizzato in modo tragico. Sì può uscire da questa narrativa esclusivamente analitica e disperante?
Dal Meeting sono arrivate voci di speranza da chi educa gli ineducabili, giovani tenuti al margine e ritenuti casi disperati.
L’immondizia portata a riva dalla pandemia
La prima grande astrazione da smontare è quella che sentiamo ripetere da tempo come monotono ritornello: è tutta colpa della pandemia. Quando si sta di fronte ai dati allarmanti che parlano di aumento di suidici tra i giovani, autolesionismo, isolamento patologico, ci si sottrae in fretta dalla responsabilità usando come paravento il grande ombrello nero della pandemia.
I dati dicono che le emozioni più percepite (cioé che rimangono per più tempo nei circuiti mentali) da un ragazzo di 16 anni sonol’ansia, l’ira e l’apatia. Il ruolo della pandemia in quest’orizzonte cupo è stato quello di un esaltatore di problemi che già esistevano. E’ stato efficacissimo e applaudito l’intervento della dottoressa Daniela Lucangeli che ha proposto una cornice chiara della situazione.
La pandemia ha fatto come il mare quando c’è tempesta. Non è la pandemia che ha causato l’evidenza di questo malessere che ci ha coinvolti tutti, piccoli, grandi e anziani. Quando c’è burrasca il mare porta in spiaggia quello che nel mare è stato buttato. E cosa c’era stato buttato? Un sacco di immondizia. Quello che abbiamo visto a riva non sono state sementi, conchiglie e creature viventi. Abbiamo visto un sacco di plastica e immondizia. Così succede riguardo a quello che ha portato la tempesta della pandemia.
Noi (educatori) avevamo messo dentro il nostro sistema educativo un sacco – e chiedo scusa per la parola – di immondizie, cioé di stati di tensione, di non soluzione, di non-visione del futuro. Daniela Lucangeli
A questa tempesta la dottoressa propone di rispondere con la rivoluzione che è “I care”, espressione inglese che non si traduce “io ti curo”. Il tu dei ragazzi non può essere un complemento oggetto inerte. “I care”, come lo intendeva Don Milani, mette come soggetto il “tu”: tu – ragazzo – stai a cuore a me. E vediamo cosa accade quando questa rivoluzione accade, quando i ragazzi anche più problematici vengono resi soggetto di una speranza.
Emergenza significa anche che emerge la speranza
Ride, Don Claudio Burgio, confessando di essere definito dai giornali italiani “il prete dei trapper“. Don Claudio è cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano. Vive con ragazzi che urlano il bisogno di essere felici attraverso modalità violente, distruttive e autodistruttive. Uno dei ‘suoi’ ragazzi è il trapper Zaccaria-Baby Gang che in una delle sue canzoni dice:
Non so dirti ti amo, perché nessuno me lo ha mai insegnato
Chiaro e semplice. Questo è il tema. Cosa significa amare? Noi genitori o educatori stiamo con l’anima in pace rispetto a questa responsabilità? E responsabilità significa rispondere, e non imporre sull’altro una strategia di pensiero.
Don Claudio ha provocato il pubblico del Meeting sottolineando che i ragazzi, anche con modalità scomposte o addirittura violente, urlano il bisogno di avere dei padri, di avere figure autorevoli.
Le mura da far crollare sono quelle che gli adulti hanno costruito attorno alla dittatura del profitto, la cultura della prestazione. Questa prospettiva ai ragazzi non sta bene e sfidano l’autorità per questo. Autorità non è esercizio dispotico di potere. Se l’autorità diventa la testimonianza di chi dice “vieni e vedi”, i ragazzi sono pronti ad ascoltare. “Vieni e vedi” è l’ipotesi di chi scommette facendo una proposta inedita, un camminare fianco a fianco verso un traguardo non stabilito a priori.
Questi ragazzi mettono in crisi la cultura della prestazione di noi adulti, ed è un bene che vada in crisi.
L’emergenza educativa c’è ma va letta in una chiave diversa, non come qualcosa di negativo – vale a dire come crisi che alimente il pessimismo – ma come occasione, kairos. Emergenza è far emergere, è rendere visibile ciò che per decenni non hai voluto guardare. E’ portare alla luce l’inguardabile, l’inascoltabile. L’emergenza non è negativa se ad emergere è anche la speranza.
Don Claudio Burgio
Abbracciarli per come sono, non per come dovrebbero essere
Dal 2004 esiste in Italia la “Piazza dei Mestieri”, un luogo di aggregazione e un innovativo modello di imprenditoria sociale, inclusione ed educazione per i giovani, in cui sperimentare un approccio positivo alla realtà, dall’apprendimento al lavoro, dal modo di usare il proprio tempo libero alla valorizzazione dei talenti di ciascuno. Ne è presidente Dario Odifreddi che ha ulteriormente alzato l’asticella della sfida durante il dibattito di ieri.
La sfida è sul desiderio, tenerlo desto. Io ho 60 anni, ma ho il desiderio acceso di quando avevo 14 anni. Soprattutto grazie al fatto che ho sempre trovato qualcuno che mi ha abbracciato per come ero, non per come dovevo essere.
Dario Oddifreddi
Anche questo va nella direzione di scalfire l’abbaglio del profitto e della prestazione. Ed è attraverso un esempio clamoroso che Odifreddi mostra cosa accade quando un ragazzo è abbracciato nella sua unicità anche maldestra e ferita.
Cita a braccio una poesia scritta da una delle ragazze passate dalla Piazza dei Mestieri.
Non è più male la mia vita
non è più tristezza il mio futuro
solo mi resta amaro il ricordo
ma è un tempo passato
un tempo dimenticato
perché qualcuno con l’abbraccio del bene
può trafiggere la solitudine.
La sfida educativa è innanzitutto mettersi a guardare e ad ascoltare i giovani, anziché parlare di loro fabbricando etichette astratte sul loro disagio. Le parole disarmanti di questa ragazza dicono il miracolo che accade quando la debolezza viene abbracciata e non trattata da patologia.
La presenza di uno sguardo
Vi invito ad ascoltare per intero il dibattito, di cui mi preme appuntare un ultimo tassello che con entusiasmo la dottoressa Lucangeli ha messo sul tavolo. Abbraccio e sguardo sono tra le parole di cui si può dire “Ti piace vincere facile!”. Le pronunci e hai già vinto. Ma sono solo evocatrici di un vago romanticismo? Tutt’altro.
Da due anni a questa parte ci ripetiamo che la pandemia ci ha tolto il contatto e la presenza con le persone e le cose. E’ una questione corporea ancor più che puramente emotiva.
Il cervello non è un organo, è una struttura che è intessuta nell’intero corpo fino alla periferia della pelle attraverso dei neuroni speciali. Ci sono interruttori che hanno impiegato milioni di anni evolutivi di filogenesi e sono lo sguardo, il tocco e l’abbraccio che comandano alle aree del nostro cervello di produrre i neurotrasmettitori dell’umore. 30 secondi di abbraccio comandano all’amigdala di produrre ossitocina.
Per generare il dialogo, il ‘noi’ di un io e un tu, ci vuole lo sguardo. Perché il cervello da milioni di anni evolutivi regola il “noi” con lo sguardo, con la prossimità. E’ con lo sguardo che diciamo ” tu mi stai a cuore”. E mi stai a cuore intero, non potato, non perfetto, non prestazionale.
Daniela Lucangeli
La centralità del vivere una vita fatta di relazioni toccabili e guardabili innesca un bene nell’esperienza, attiva una risposta buona del cervello. Ecco la radice del motivo per cui da giovani innamorati esplodevamo letteralmente di gioia quando lui/lei “mi ha guardato”.
Oggi, dunque, il tema non è più discutere del malessere giovanile, ma chiederci se siamo pronti a metterci sulla strada insieme ai nostri ragazzi con un’ipotesi affettiva che torna all’origine del disegno di Dio sull’essere umano: l’uomo è un occhio spalancato sul mondo che esige una relazione viva per soddisfare il bisogno di bene piantato nell’anima.
E la dritta migliore ci arriva da Giovanni, un ragazzo che ha scritto alla dottoressa Lucangeli questo spunto per genitori ed educatori.
Fabbricate pillole di gioie in parole, opere e omissioni. In parole: tornate a dialogare con chi mettete al mondo. In opere: cominciate a vivere con chi mettete al mondo. E in omissioni: ometette il vostro peso dalle loro ali. – Giovanni
Annalisa Teggi