Ma Dio punisce? La risposta poco convincente di Papa Francesco a Fazio

Può Papa Francesco non essersi reso conto che la metafora del padre che punisce amorevolmente il figlio, proposta per tenere insieme il Dio misericordioso e il Dio punitore, crea più problemi di quelli che risolve?

Tra le risposte date da Papa Francesco domenica sera a Che tempo che fa ce n’è una che, a mio parere, risulta poco convincente: quella su “Dio che punisce”. Non perché Francesco non sia stato chiaro nel rispondere, ma perché nel farlo ha dovuto necessariamente tenere conto di come su questo tema la sensibilità ecclesiale sia ancora divisa: da un lato chi ritiene ormai anacronistica e inconciliabile con la misericordia l’immagine del Dio punitore, dall’altro chi, facendo riferimento al dato biblico e tradizionale, crede sia impossibile eliminare questo tratto dal volto del Dio cristiano.

Papa Francesco – dal quale non si poteva evidentemente pretendere in una diretta televisiva una posizione dirimente nei confronti di un dibattito teologico – per tenere insieme il Dio misericordioso e il Dio punitore ricorre alla metafora del genitore che punisce il figlioletto con rammarico e amorevolezza. Posizione che da un lato gli permette di tenere aperta la possibilità di un agire divino interpretabile come “punizione”, ma dall’altro smorza le tonalità minacciose e autoritarie che l’idea del punire porta con sé, soprattutto se attribuita a Dio.

A ben vedere però la metafora non è pacifica, ma apre a una molteplicità di interrogativi. Tralascio qui le questioni più tecniche dal punto di vista teologico, come l’evidente antropomorfismo nella rappresentazione del Dio punitore, i mutamenti in Dio che tale idea implica, i problemi che pone oggi (dopo Auschwitz, ma anche dopo Buča e Gaza) pensare a un Dio che interviene direttamente nella storia, le difficoltà concrete nell’indicare tali interventi e riconoscerne la linearità.

Mi soffermo invece sul dato culturale, in primis rispetto al modo di pensare il valore pedagogico della punizione oggi: mentre un tempo la punizione – anche fisica – era pacificamente accettata come modalità educativa nei confronti dei bambini, oggi diverse scuole di pensiero la mettono in discussione. Ma quand’anche accettassimo la punizione come strumento educativo, è del tutto evidente come essa avrebbe eventualmente significato dentro un contesto in cui il genitore si rivolge a un bambino o al massimo a un adolescente – ed è esattamente a questa dinamica infantile che Papa Francesco fa riferimento. Quando il figlio diventa adulto è chiaro che la punizione, anche se intesa come correzione amorevole, appare del tutto fuori luogo. Un genitore che tenta di correggere un figlio adulto non ricorre alla punizione: verrebbe vista come un’indebita ingerenza nei confronti della libertà del figlio ormai matura e risulterebbe del tutto inefficace.

Certo vi è una forma di “punizione” inflitta all’adulto che è culturalmente accettata nel nostro contesto sociale, ossia le sentenze dei tribunali – per quanto, in linea generale, le pene dovrebbero essere intese in termini rieducativi e non punitivi – ma si tratta di un ambito totalmente diverso rispetto alla forma affettiva e relazionale della punizione indicata da Francesco. L’immagine del Dio giudice che emette sentenze la tradizione cristiana la riserva per la fine dei tempi e rispetto a questa prospettiva Papa Francesco, in un altro passaggio della medesima intervista, esprime l’auspicio – precisandolo come parere esclusivamente personale – che il giudizio non sia punitivo per nessuno, che l’inferno sia vuoto. Non è quindi evidentemente a questa forma di giudizio che Papa Francesco fa riferimento parlando del Dio punitore.

Ciò detto, si fa davvero fatica a comprendere come il Dio che punisce, anche se nella forma amorevole e carica di rammarico tipica del genitore, possa rappresentare un’immagine di Dio apprezzabile e credibile. Delle due una: o Dio ci considera alla stregua di bambini anche quando non lo siamo più, oppure utilizza per gli adulti una modalità di correzione che la società e la cultura hanno ormai irrimediabilmente superato.

Può Papa Francesco non essersi reso conto che la metafora proposta per tenere insieme misericordia e punizione divine crea più problemi di quelli che risolve? Evidentemente no. Ma di fronte alla spaccatura della sensibilità ecclesiale rispetto a questo tema, non poteva fare altrimenti. Dalle sue parole risulta del tutto evidente come il Dio che ha in mente abbia il volto della misericordia, del rispetto e dell’accoglienza indiscriminata verso tutti; è altrettanto chiaro come l’idea del Dio punitore cozzi decisamente con questo modo di pensare Dio, tanto che Francesco cerca di smorzarla più che può; d’altra parte però, finché la teologia non sarà riuscita ad escluderla in modo convincente e condiviso dalla prospettiva cristiana, il Papa non può esprimersi al di là dell’ambiguità.

Siamo secondo me in presenza di un tema di fronte al quale – come per quanto concerne l’omosessualità, il ruolo delle donne nella Chiesa e altre questioni di stretta attualità ecclesiale – il dato culturale si esprime con chiarezza in una certa direzione (il Dio punitore non è più né credibile né proponibile); la teologia vorrebbe assecondarlo, ma non riesce ancora a rendere pienamente ragione della fede cristiana facendo a meno di ciò che la cultura strutturalmente non può più recepire. E questo perché  l’ambiguità del Dio misericordioso e punitore è insita inequivocabilmente nel dato biblico e tradizionale, rispetto al quale la teologia non ha ancora strumenti abbastanza forti e condivisi per esprimersi in una prospettiva di discontinuità.

Eppure, a ben vedere, è precisamente la scelta della discontinuità ad aver permesso al cristianesimo di rivolgersi nel tempo a popoli e culture diverse. La fatica della teologia nei confronti della discontinuità rischia di bloccare il cristianesimo dentro una forma culturale del passato, rendendolo incapace di rivolgersi alle donne e agli uomini di oggi. Cosa sarebbe successo se Paolo, di fronte alla riluttanza dei greci a farsi circoincidere, avesse adottato un criterio di continuità rispetto a un tema per niente accessorio dal punto di vista teologico, in quanto inerente uno dei tratti distintivi dell’esperienza umana di Cristo? È allora quanto mai necessario che la riflessione teologica si doti di criteri rinnovati, rigorosi e condivisi, in grado di garantire insieme la fedeltà al Vangelo di Gesù, la rilevanza del dato culturale passato e presente, la legittimità e plausibilità di un’interpretazione del dato biblico e tradizionale in un’ottica di discontinuità.

Gabriele Cossovich