
Testi legnosi e freddi. La preghiera dei fedeli che si legge di solito a Messa non “funziona”. Ma anche altre forme di preghiera andrebbero rivisitate.
Mi è capitato diverse volte, mentre al microfono leggevo la preghiera dei fedeli durante la Messa, di chiedermi: «quante delle persone che partecipano a questa celebrazione, e non hanno il testo scritto tra le mani, stanno comprendendo il senso della preghiera a cui meccanicamente rispondono: “ascoltaci o Signore”?»
Me lo chiedevo perché, mentre leggevo, facevo fatica a trovare il tono e le pause corrette per dare un senso a quelle pur poche righe. E se non è facile per chi legge, figuriamoci per chi ascolta…
Un esempio. «Per la Chiesa, perché nelle sue celebrazioni, pur macchiate di umanità e di fragilità, si faccia autentica esperienza di santità e di contemplazione della bellezza di Dio. Noi ti preghiamo». Una persona che ascolta, ha tempo di chiedersi, prima di pronunciare la formula “Ascoltaci o Signore”, che cosa significhi che le celebrazioni sono «macchiate di umanità e fragilità»? A parte il fatto che io spero che le celebrazioni non siano macchiate, ma semmai impregnate di umanità e anche di fragilità, questo infilare espressioni difficili non è un modo per rendere meccanica la preghiera, pura emissione di voce senza consapevolezza di ciò che si sta chiedendo?
Oppure, un altro esempio: «Per la Chiesa universale, perché, guidata dai pastori, possa incarnare i piani pastorali in tutte le culture dei territori dove è presente, per testimoniare la comunione ecclesiale, segno di amore e di fraternità…». È un misto di legnosità a livello linguistico (ma perché ci devono essere sempre delle frasi incidentali, che nel linguaggio orale non funzionano?), ma anche a livello dei significati: bisogna incarnare, ma solo sotto la guida dei pastori (e dove il prete non c’è?), e bisogna incarnare delle cose che si chiamano piani pastorali, non l’annuncio, la testimonianza di fede, l’esperienza di Dio…
Inoltre, a volte queste preghiere hanno una sovrabbondanza di aggettivi e di subordinate che le rendono fredde e distanti. Che bisogno c’è, ad esempio, di dire «per i missionari, perché la loro presenza nelle terre di missione sia di sostegno alla promozione della pace e della giustizia a favore delle comunità più povere e disagiate»?. Non sarebbe più semplice, empatico e adatto al linguaggio orale una formulazione tipo: «per i missionari, perché riescano a portare pace e giustizia nelle comunità più povere e disagiate in cui svolgono la loro missione»?
Quando preghiamo con i salmi, siamo consapevoli che stiamo usando un linguaggio che non è nostro: viene da uno spazio e da un tempo lontano, vive nella Sacra Scrittura, ha una profondità nello stesso tempo storica, teologica, umana… Possiamo farne una lettura superficiale, apprezzandone il ritmo, le immagini, il significato letterale delle parole. Oppure – se siamo appena un po’ più preparati – possiamo coglierne i significati più profondi. In entrambi i casi, però, siamo grati di poter usare i loro versi per esprimere la nostra preghiera: sono talmente capaci di dare voce all’essenziale, che parlano agli uomini di ogni epoca e contesto.
Abbiamo però bisogno anche di altre forme di preghiera – individuale e soprattutto comunitaria – nate nell’oggi e per l’oggi. Ma sono ancora troppe le preghiere comunitarie che “non trovano le parole”, perché non nascono dal cuore di chi prega, e non trovano la strada per arrivarci.
Recentemente ho risentito una canzone che pensavo e speravo fosse orami dimenticata. La si cantava molto spesso quando ero giovane, anche se era già vecchia allora. Il testo era questo: «Dell’aurora tu sorgi più bella,/ coi tuoi raggi fai lieta la terra,/e fra gli astri che il cielo rinserra non v’è stella più bella di te./Bella tu sei qual sole,/bianca più della luna,/e le stelle più belle,/non son belle al par di te…/Gli occhi tuoi son più belli del mare,/la tua fronte ha il candore del giglio,/le tue gote baciate dal Figlio/son due rose e le labbra son fior…»
Erano gli anni settanta, portavamo i jeans come forma di contestazione, rimettevamo in discussione i criteri di bellezza che fino ad allora avevano imprigionato le donne, rivendicavamo il diritto di non aderire ai modelli femminili imposti dai media e dalla tradizione, cercavamo il posto delle donne nel mondo. Poi andavamo in Chiesa e ci veniva proposta una figura di Maria basata unicamente sulla bellezza. Con gli occhi azzurri, le gote rosa e le labbra come fiori (rossi, presumo). E noi avremmo dovuto esserle devote. E imitarla, magari.
Cantare è pregare due volte, ma in questo caso mi era proprio difficile trovarci un senso.
Sulla necessità di “riapproriarsi” della Preghiera dei fedeli, aveva scritto qualche anno fa da Diego Andretta, che la vedeva come uno «spazio di “risposta” corale alla Parola del giorno» e portava la riflessione sui «contenuti tematici delle preghiere dei fedeli , quelli che possono sprigionarsi “con una sapiente libertà” dal nostro cuore e dal filtro di un ascolto attualizzato della Parola di Dio». Ma sono anche molte altre le preghiere di cui dovremmo riappropriarci.
Perché, se pregare non è semplicemente “recitare le orazioni”, come si diceva una volta, ma incontrare Dio nei nostri cuori, certe parole davvero non aiutano, anzi, ci portano a restare, appunto, sul piano della recita.
Paola Springhetti