Le nostre preghiere riflettono e promuovono l’immagine di Dio che ci portiamo dentro e annunciamo al mondo: lex orandi lex credendi, lex credendi lex orandi.
Nella cultura odierna sono innumerevoli le persone che non sono state educate secondo le formule tradizionali. Molti bambini e giovani non le hanno nemmeno mai sentite. Quando vengono ascoltate, sono interpretate alla lettera, secondo ciò che significano oggettivamente leggendole nel dizionario.
Penso alle grandi celebrazioni che, trasmesse per televisione, raggiungono il mondo intero. È successo, ad esempio, ai funerali della regina Elisabetta in Inghilterra (non si tratta, quindi, solo dei cattolici, ma anche di altri cristiani). Avviene nelle grandi celebrazioni vaticane. Anche durante le visite particolarmente importanti di papa Francesco.
Convincere Dio ad agire al posto nostro?
Solitamente quelle preghiere sono serie, impegnate, persino belle. Ricordo le preghiere al funerale inglese, con frasi accurate nella forma e nel tono. Succede normalmente in quelle del papa.
Nello specifico, hanno attirato la mia attenzione le “domande” proclamate in una recente celebrazione a Marsiglia, dopo il discorso di Francesco ai leader religiosi.
Come sempre, il discorso papale, pieno di spirito evangelico, mostra la preoccupazione generosa per i grandi problemi e i dolorosi bisogni dell’umanità. Le sue parole sono un appello ardente che risveglia i cuori e invita alla solidarietà. Le proclama davanti al Dio dei profeti, che, in suo nome, esortavano ad aver cura dell’orfano, della vedova, dello schiavo e dello straniero. Le dice nel nome di Gesù, che ha testimoniato con la vita e consacrato con la morte la sua piena dedizione all’impegno di risanare il dolore del mondo, lasciandoci come missione l’urgenza di lavorare a favore di tutti gli umiliati e gli offesi.
Una volta proclamata l’intenzione, i fedeli vengono invitati da diversi partecipanti a vivere come convocati nel nome di Dio e a rivolgersi a Lui. E qui tutto cambia. Le parole rompono la logica intrinseca e l’atteggiamento adorante e accogliente della celebrazione. La comunità è invitata ad aprirsi alla chiamata divina, a lasciarsi commuovere, a ravvivare la fede e la fiducia nell’aiuto di Dio, a prepararsi a collaborare il più possibile con la sua opera salvifica.
Ed è qui che la speranza cambia direzione. Invece di aprirsi a Dio e prendere coscienza del suo messaggio, che invita a collaborare con la sua opera a favore delle necessità degli uomini, le preghiere chiedono che sia Lui a intervenire. Invece di decidersi ad ascoltare il suo invito ad aprire la nostra sensibilità e a sforzarsi di seguirla, la preghiera cerca di convincere Dio affinché ascolti e si decida ad avere pietà.
Di conseguenza, analizzando il significato delle parole, invece di uscire dalla celebrazione con lo spirito rinnovato, la fiducia filiale e la decisione di collaborare con Dio per alleviare il dolore che rende triste il mondo e affligge gli esseri umani, le sue figlie e i suoi figli, i suoi fratelli e le sue sorelle, lasciamo fare tutto a Lui, usando parole che, invece, dovrebbero suscitare la tua compassione e muovere la tua decisione. E così, senza rendercene conto, inviamo un messaggio rassicurante al nostro inconscio che, contro la nostra stessa intenzione, smobilita la volontà e placa l’inquietudine.
Per quanto poi riguarda l’ambiente culturale, anche senza volerlo, lanciamo il messaggio subliminale che è il Dio che preghiamo che deve eliminare i mali, è lui il responsabile del fatto che esistono e non si risolvono: il male diventa così per molti la “roccia dell’ateismo”. Leggere la stampa, soprattutto nelle grandi catastrofi, dovrebbe diventare una forte lezione teologica.
Ne va dell’immagine di Dio
Ribadisco che tutto questo avviene senza che ce ne accorgiamo e senza pretendere alcunché, perché non si tratta in alcun modo di giudicare le intenzioni o di ignorare la buona volontà concreta di chi prega così: tutti – compreso ovviamente me stesso – lo abbiamo fatto tante volte senza accorgerci della terribile contraddizione.
Oggi, il declino della preghiera e l’enorme tsunami dell’incredulità radono al suolo la fede in (questa immagine di) Dio e dovrebbero allarmare sia la sensibilità dei credenti sia la responsabilità dei teologi e del magistero ecclesiale. Siamo davanti a una sfida enorme che, proprio per questo, è anche una grande opportunità. Non è facile approfittarne, poiché si tratta di contrastare abitudini millenarie e inerzie profondamente incorporate. Ma è urgente prenderne coscienza. Quanto meno, per decidere di iniziare il cambiamento.
Personalmente, mi prendo tempo per fare chiarezza teologica su questa oggettiva carenza nel nostro modo di pregare. Il bisogno di correggerla mi sembra innegabile. Fino all’evidenza. Ecco perché, con preoccupazione, come fosse una supplica ecclesiale, invece di ingarbugliarsi in sottili discussioni, invito semplicemente e fraternamente a prendere una posizione personale davanti al problema.
Propongo di leggere insieme, con questa intenzione e con questo spirito, l’esempio concreto della “preghiera dei fedeli” che si è fatta nella celebrazione di Marsiglia.
È un buon esempio, perché è evangelicamente ambientato dalle parole profonde e commoventi di papa Francesco nella tragedia delle persone che muoiono annegate nel Mediterraneo. Le richieste sono eccellenti nella formulazione e cordiali nella comunione con la sofferenza. E sarebbe offensivo nutrire il minimo dubbio riguardo all’intenzione generosa, limpida ed evangelica dell’ambiente.
Ma proprio questo ambiente aiuta a capire, con maggiore evidenza, lo squilibrio tra le preghiere e le parole che le compongono. Non è quanto esprimono nel loro significato oggettivo e – permettetemi di usare la parola erudita – con la loro terribile efficacia pragmatica. Vale a dire, con l’impatto che hanno sulla coscienza dei credenti e sulla loro percezione dell’immagine di Dio.
Leggere attentamente:
- Oggi milioni di persone vengono gettate sulle strade e nei mari del mondo a causa della guerra, della miseria e delle persecuzioni politiche o religiose. Signore, ti preghiamo. (Tutti hanno ripetuto in coro): – Padre di tutti i popoli, ascolta la nostra preghiera.
- Illumina il loro cammino, guidali incessantemente, affinché nessuno si perda, affinché trovino porte e cuori aperti per accoglierli, una terra dove riposare, un futuro per sé e per i propri figli. Signore, ti preghiamo. – Padre di tutti i popoli, ascolta la nostra preghiera.
- Allontana da loro la tentazione della violenza e della disperazione e trovino in te, Signore, la fonte della speranza nelle difficoltà che possono incontrare. – Padre di tutti i popoli, ascolta la nostra preghiera.
- Dona ai responsabili dell’accoglienza un cuore umile, affinché ascoltino questi uomini e queste donne esiliati e imparino a conoscerli e a capirli. Ti preghiamo, Signore. – Padre di tutti i popoli, ascolta la nostra preghiera.
- Ai responsabili dell’accoglienza insegna a servire senza giudicare, fa’ di essi strumenti della tua pace. Per loro, Signore, ti preghiamo. – Padre di tutti i popoli, ascolta la nostra preghiera.
Varrebbe la pena rivedere la celebrazione per cogliere il contrasto in tutta la sua evidenza.
Permettetemi di rafforzare tale contrasto ricordando le parole con le quali questo duro squilibrio si ripete con terribile efficacia nella maggior parte delle celebrazioni domenicali: «Signore, ascolta e abbi pietà».
Mentre l’abitudine e l’assimilazione ripetitiva ci impediscono di rendercene conto, di solito non viene percepita l’enormità teologica espressa in questo modo. Ma, dal momento in cui ci si rende conto di ciò che viene così proclamato, non dovrebbe essere facile sfuggire allo stupore.
Ripeto: non mi escludo da un modo di pregare al quale, senza rendermene conto e con tutte le migliori intenzioni, ho partecipato per molti anni. Ma confesso anche che, una volta capito il significato oggettivo di queste parole, ho la sensazione di non riuscire a impedire che mi suoni dentro come qualcosa di blasfemo.
È in gioco la responsabilità teologica e pastorale. Ed è soprattutto il rispetto adorante davanti alla grandezza divina e il timore di ferire la tenerezza infinita del suo amore.
Il Sinodo, con la mobilitazione dell’intero corpo ecclesiale, offre un’occasione propizia per gettare il seme di un processo di aggiornamento al di dentro, in quanto comunità orante e, al di fuori, come ospedale da campo.
Se non avessi paura di cadere nella tentazione dell’eccessivamente solenne, finirei per dire come confessione e quasi a discolpa: dixi et salvavi (ho parlato e ho salvato).
Andrés Torres Queiruga