L’arte di vivere e di rimanere umani

Di ritorno da una settimana di esercizi spirituali in un convento trentino, l’impatto con il mondo reale non poteva essere più aspro. In quel convento, guidati da un padre cappuccino svizzero e dalle mie meditazioni filosofico-teologiche, erano convenute una quarantina di persone dalla Svizzera e da tutta Italia, da Catania a Bolzano, da Torino a Trieste. Immaginate persone che non si conoscono tra loro e che però, avendo una finalità comune, iniziano a guardarsi con fiducia e giorno dopo giorno, nel raccoglimento e negli scambi di esperienze, sentono di condividere qualcosa, di essere sulla medesima strada, di soffrire per le stesse paure, di coltivare le stesse speranze, e vedono sorgere sentimenti di reciproca simpatia e persino di unione. Si pranza e si cena in silenzio, sempre in silenzio si cammina attorno al chiostro e nei corridoi e nel giardino del convento, si sta seduti nella sala di meditazione, alcuni sulla sedia, i più sui cuscini nella classica forma orientale detta “posizione del loto”, si pregano i salmi, si cantano le antifone mariane della tradizione come Salve Regina e Regina coeli, si riceve la benedizione serale di padre Andrea. Soprattutto si coltiva l’arte del respiro e il controllo della mente. Ci si rilassa. Ma mano che si impara a respirare consapevolmente, si impara a riconoscere i trucchi della mente, le sue ansie e le sue menzogne (perché la mente “mente”) e si comprende che vivere è un’arte che va appresa, che bisogna imparare a vivere, che non è per nulla scontato saper vivere da esseri umani …

Gli esseri umani. Che cosa sono? Dopo una settimana di esercizi spirituali l’impatto con il mondo reale (o forse meglio, scusate: con il mondo irreale della follia quotidiana dentro cui siamo immersi) non poteva essere più crudo. Un uomo a Civitanova Marche uccide un ambulante con la pelle di un altro colore di nome Alika perché “chiedeva con insistenza e disturbava la mia fidanzata” facendolo agonizzare per quattro minuti: in che stato era la sua mente? I presenti e i passanti non intervengono, non gridano, ma filmano con i cellulari la scena: in che stato era la loro mente? Due sorelle di 15 e 17 anni, Giulia e Alessia, sono travolte alla stazione di Riccione da un treno dell’alta velocità mentre in condizioni anomale cercano di attraversare il binario: in che stato era la loro mente? Una madre a Ponte Lambro lascia morire di stenti la figlia di 18 mesi dopo averla abbandonata sola a casa per diversi giorni per stare con un uomo: in tutti quei giorni, in che stato era la sua mente?

La mente vaga e fugge chissà dove, e qui non c’è più, perché non vede più quello che tutti vedono e non sente più quello che tutti sentono. Genitori che dimenticano i figli piccoli in auto, un figlio che uccide a coltellate la madre. La mente impazzita. Direi anche la mente malata, preda di quella violenza incontrollata che attraversa le nostre città rendendole ancora più roventi di quanto non siano già a causa del clima. Abbiamo già perso del tutto la cognizione dell’arte di vivere da esseri umani? L’abbiamo mai avuta? Che cos’è l’essere umano?

Parlo con insegnanti che mi raccontano della progressiva decadenza culturale che genera deficit di attenzione dei ragazzi che non arrivano a due o tre muniti di concentrazione, oppure che hanno un bagaglio lessicale di qualche centinaio di parole per una capacità di lettura e di interpretazione della realtà sempre più impoverite, così che il mondo, dalla vastità della sua gamma cromatica, si riduce a un bianco e nero tipo Far West: io e i miei amici buoni, gli altri cattivi. È la logica della banda, del clan, della tribù.

I nostri ragazzi hanno bisogno di imparare l’arte di vivere ma nessuno gliela insegna più. Le loro menti vengono riempite di nozioni di cui non hanno bisogno e lasciate senza gli strumenti esistenziali di cui hanno necessità vitale. Hanno bisogno di educazione, gli viene data (quando va bene) solo istruzione. Come se a un assetato che chiede acqua si dessero sabbia e cemento.

Ma che cos’è l’essere umano? Se andiamo a indagare la storia del pensiero troviamo le più contrastanti definizioni. Mortali e caduchi come le foglie (Omero), anime immortali (Platone), animali politici (Aristotele), incomunicabile solitudine (Duns Scoto), dotati di libero arbitrio (Cartesio), privi di libero arbitrio (Spinoza), legno storto ma anche coscienza morale (Kant), fenomenologia dello spirito (Hegel), volontà di vita (Schopenhauer), grumo di egoismo (Stirner), malinconia e sofferenza (Leopardi), qualcosa da oltrepassare (Nietzsche), un ego schiacciato tra inconscio e superego (Freud), personaggi in cerca d’autore (Pirandello), passione inutile (Sartre), essere-per-la-morte ma anche pastore dell’essere (Heidegger). Ai nostri giorni vanno di moda definizioni basiche di impronta scientifica: gene egoista (Dawkins), scimmia nuda (Morris), schiuma chimica (Hawking). Sul nostro comportamento etico David Hume ha scritto: “C’è un po’ di benevolenza, per quanto poca, infusa nel nostro cuore, qualche scintilla di amicizia per la specie umana, qualche particella della colomba impastata nella nostra struttura, insieme con gli elementi del lupo e del serpente”. A proposito di lupo, Plauto affermava che noi verso gli altri uomini siamo proprio così: Homo homini lupus. Cecilio Stazio due decenni dopo però gli rispose: Homo homini deus. Chi ha ragione? Siamo lupi o esseri divini? Chi meglio rispecchia la nostra essenza: chi pratica gli esercizi spirituali coltivando e vincendo se stesso, o i protagonisti dei casi di cronaca richiamati?

Ben lungi dal voler fare la morale, io solo constato la grande crisi della morale e di conseguenza dell’umanità. Le due cose infatti sono strettamente correlate, perché l’essenza specifica dell’essere umano che lo distingue da tutti gli altri viventi è proprio il suo essere un agente morale. Vale a dire: quello che fa un cane lo decide la sua natura, quello che fa un essere umano lo decide la sua cultura. La cultura non è erudizione, dati memorizzati, libri letti: la cultura è quello che resta una volta dimenticati tutti i libri e tutti i dati, e che fa agire in modo retto, giusto, gentile. Cioè in modo educato, laddove educazione non è galateo ma è formazione integrale e rettitudine della mente, come nel concetto greco di paideia, nel tedesco Bildung, nell’inglese education. Chi agisce in modo moralmente responsabile è un uomo colto, cioè coltivato, e la sua interiorità produce frutti buoni. Chi agisce irresponsabilmente è un incolto, lo è anche se ha letto migliaia di libri e sa parlare bene, perché la sua interiorità produce spine e funghi velenosi.

Io non so se dietro la quasi totale assenza di educazione morale nella nostra società vi sia un disegno. Talora però lo sospetto. Per “assenza dell’educazione morale” intendo l’assenza dell’etica nella scuola, nella produzione televisiva e cinematografica, nella letteratura, nell’arte, nella filosofia. Guai, oggi, a passare per “moralisti”! Molto più efficace essere immorali e immoralisti: vende molto di più. Quando mi prende il sospetto che questa assenza dell’etica sia voluta, ripenso a queste parole di Hannah Arendt: “Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione tra realtà e finzione, tra vero e falso, non esiste più” (Le origini del totalitarismo, p. 649). Il suddito ideale del totalitarismo sono le persone che hanno perso cognizione del reale e la cui mente è in balìa di finzioni e virtualità di ogni sorta. Persone il cui io virtuale, cioè quello che vorrebbero essere in base a quanto viene loro inculcato dalla pubblicità e dalla fiction costruite a tavolino, è molto più forte del loro io reale, cioè di quello che di fatto sono: il che le porta a essere del tutto sconnesse dalla realtà e in balìa dei ciarlatani e soprattutto dei loro fantasmi interiori.

Una cosa, comunque, alla fine mi è chiara: noi non abbiamo un’essenza definita dalla natura, ma siamo ciò che esprime la nostra cultura. Il che ci rende al contempo peggiori e migliori delle bestie, lupi feroci e insieme simili agli dèi. Tutto in noi dipende dalla cultura, in quanto capacità di azione morale. E questa cultura dipende dall’educazione della mente. Ne viene che o mettiamo al centro dei programmi sociali e politici l’educazione della mente (a partire dalla sua capacità di attenzione e di concentrazione) o il baratro verso cui sprofondiamo si allargherà sempre più. Non dico di rendere obbligatoria per tutti una settimana di esercizi spirituali in quel convento trentino, ma qualcosa di simile nelle nostre scuole e nella programmazione culturale della società bisognerebbe escogitare.  

Vito MancusoLa Stampa 2 agosto 2022