La sofferenza dei giovani e dei ragazzi e il collasso educativo di scuola e famiglia

I giovani oggi stanno male, come dimostra la tragica vicenda del sedicenne di Abbiategrasso. Ma non cerchiamo facili spiegazioni imputando il loro malessere al distanziamento sociale imposto dalla pandemia. Ben più profonde sono le ragioni. E vanno cercate nel collasso educativo della famiglia e della scuola, avvenuto con il progressivo passaggio dalla società della disciplina che si regolava sul ciò che era permesso e ciò che era proibito, alla società dell’efficienza e della performance spinta, spesso misurata dal numero dei like e dei follower a cui viene affidata la propria identità, spesso accompagnata da un senso di insufficienza per ciò che si vorrebbe essere e non si riesce ad essere a partire dalle attese altrui, dalle quali ciascuno misura il valore di se stesso. 

L’identità, infatti, non la possediamo per il fatto che siamo nati, ma è un dono sociale, è il risultato del riconoscimento o del misconoscimento che riceviamo dagli altri. 

La famiglia oggi è molto carente in termini educativi. I genitori parlano poco con i figli, soprattutto in tenera età, e in compenso li riempiono di regali che stanno al posto di tutte le parole mancate. 

Doni a Natale, ai compleanni, alle promozioni, alle immediate soddisfazioni delle loro richieste che hanno come effetto l’estinzione del desiderio. Perché il desiderio è mancanza. Non si desidera quello che si ha, ma quello che non si ha. E in un clima di abbondanza e di gratificazioni il desidero si spegne. Inutile poi lamentarsi se, in età adolescenziale, i ragazzi non desiderano più niente e sono indifferenti a tutto. Oggi poi i genitori vivono spesso il mito del giovanilismo che li conduce a comportamenti non proprio esemplari. Non parliamo delle separazioni e dei divorzi, necessari quando il clima in famiglia è connotato dall’indifferenza reciproca, quando non dalla violenza. Ma non si creda che separazione e divorzi non incidano in termini depressivi sui figli. Non sono rari i casi in cui si cambia partner come si cambiano i vestiti o i lavori. È infatti diffusa una concezione della libertà intesa solo come revocabilità di tutte le scelte. 

Ma veniamo alla scuola che accompagna i nostri ragazzi per dodici anni della loro vita. Qui me lo si lasci dire. La scuola Italiana istruisce quando riesce, ma non educa. L’istruzione è una trasmissione di contenuti culturali e scientifici da chi li possiede (gli insegnanti) e chi non li possiede (gli studenti). L’educazione consiste nel prenderei cura della condizione emotiva degli studenti, perché come dice Platone: “La mente non si apre se prima non si è aperto il cuore”. E quando dico “cuore” penso a quel passaggio all’emozione a partire dalle pulsioni a cui si arrestano i bulli che, incapaci di esprimersi con le parole, sanno muoversi solo con i gesti, il più delle volte violenti, senza una risonanza emotiva dei loro comportamenti. Kant diceva che «il bene e il male potremmo anche non definirli perché ciascuno li sente naturalmente da sé». Oggi non è più vero che tutti i ragazzi avvertono la differenza tra parlare male di un professore, (cosa che abbiamo fatto tutti) o aggredirlo fisicamente (oggi ci provano anche i genitori), tra corteggiare una ragazza o stuprarla. E non sto esagerando a giudicare dalle risposte che i ragazzi che compiono queste azioni danno ai magistrati che li interrogano. Sono risposte disarmanti: «Ma cosa abbiamo fatto di strano?», «Volevamo solo divertirci». Quindi non sanno distinguere più il bene dal male, ciò che è grave da ciò che grave non è. Cosa fa la scuola con i bulli? Li sospende. Malissimo. Deve tenerli a scuola il doppio del tempo e aiutarli a guadagnare quella risonanza emotiva dei loro comportamenti, senza la quale questi ragazzi diventeranno soggetti pericolosi. 

Ma per accorgersi dei percorsi emotivi e sentimentali di questi adolescenti, i cui lobi frontali che presiedono la razionalità giungono a maturazione intorno ai vent’anni, occorre che gli insegnanti dispongano di empatia, che è la capacita di leggere cosa passa nella mete e nel cuore degli alunni che ogni giorno hanno di fronte. Si diventa insegnanti superando un concorso che misura la preparazione culturale dei candidati. A questa prova dovrebbe aggiungersi un test di personalità che misura il grado di empatia, come peraltro avviene nei Paesi del Nord Europa. Perché chi non ha empatia non può fare l’insegnante, come chi è alto un metro e cinquanta non può fare il corazziere. 

Tutti noi abbiamo studiato con piacere le discipline dei professori che ci avevano affascinato, e trascurato quelle dei professori che ci demotivavano. Oggi, su nove professori che compongono una classe, sono fortunati quegli studenti che hanno uno o due maestri su cui fare affidamento e riferimento per la loro formazione. Sempre in ordine alla formazione degli insegnanti è mai possibile che, avendo a che fare con ragazzi in età evolutiva, non sia previsto nel loro curriculum di studi un solo libro di psicologia dell’età evolutiva? 

Temo i professori che seducono gli studenti con la loro personalità, o peggio che vadano a mangiare con loro la pizza, perdendo immediatamente al loro autorevolezza. Approvo invece i professori che li seducono con la loro cultura, che però deve essere offerta come, ad esempio, Benigni ha recitato la Divina Commedia, perché la cattedra è un palcoscenico. E non sarebbe male che un insegnante, nel suo percorso formativo, frequentasse anche una scuola di teatro, invece di insistere nelle sue interrogazioni ad esempio su la battaglia di Campaldino nota 31, pagina 50. Da ultimo nelle classi superiori i genitori devono essere tenuti lontano dalla scuola, perché non sono interessati alla formazione dei loro figli, ma unicamente alla loro promozione. E in qualità di sindacalisti dei figli, in assenza di una promozione, ricorrono al Tar. La conseguenza è che, per non avere problemi, gli insegnanti finiscono per promuovere quasi tutti gli studenti a prescindere da chi ha studiato e chi non ha studiato. Invece dell’ora di ricevimento dei genitori gli insegnanti dedichino cinque o sei ore settimanali per ricevere gli studenti. Perché, certo, gli psicologi sono necessari nelle scuole, ma la loro parola non equivale a quella di un insegnante che, ricevendo gli studenti, potrebbe capire cosa passa nella loro testa e nel loro cuore in quell’età incerta che è l’adolescenza, dove l’irruzione delle istanze pulsionali, emotive e sentimentali, le difficoltà del presente e l’ansia per il futuro, il bisogno di rassicurazione e insieme di libertà anche oltre ogni limite si danno convegno per celebrare, sia pure disordinatamente, tutte le espressioni in cui può cadenzarsi la vita. 

Se queste considerazioni hanno un loro senso, mi si lasci dire che la scuola italiana, se viene meno a questi compiti, è stata pensata unicamente per dare un posto di lavoro agli insegnanti e non per educare i giovani che si affacciano alla vita. E’ vero gli insegnanti sono pagati poco per il compito educativo che dovrebbero svolgere, ma sono pagati tutta la vita perché sono di ruolo. E se abolissimo il ruolo? Quando un professore non funziona lo sanno gli studenti, i colleghi, il preside, i genitori, ma non lo si può sospendere dall’insegnamento perché è di ruolo. E allora? Gli si dà la possibilità di demotivare gli studenti per tutto il tempo della sua carriera? Non è anche questo un modo di favorire le scuole parificate che non hanno questo vincolo, rispetto alle scuole statali che, nonostante tutto, non finirò mai di difendere? Non so dire quanti sono i giovani che si suicidano in età scolare. Non pochi. So però che in Italia ci sono tre milioni di giovani con disturbi alimentari, due milioni di autolesionisti, duecentomila affetti da quella sindrome hikikomori che li trattiene chiusi nella loro stanza, connessi solo con il loro computer, con la sola prospettiva del suicidio come loro ultimo gesto. I giovani dunque stanno male. E quando bevono (e bevono tanto), quando si drogano, non penso lo facciano tanto per il piacere che possono dare queste sostanze, quanto per il loro effetto anestetico. Le assumono per anestetizzarsi dall’angoscia che provano se sporgono lo sguardo sul futuro che per loro non è una promessa e, se non è una minaccia, è imprevedibile. E quando il futuro non è prevedibile non retroagisce come motivazione. “Perché devo studiare? Perché devo darmi da fare? E al limite perché devo stare al mondo”. Se questo è lo scenario, allora è urgente che scuola e famiglia incomincino a prendere in seria considerazione la loro capacità di cura, assistenza, aiuto. 

Umberto Galimberti