Sono trascorsi dieci anni dal primo documento di papa Francesco, Evangelii gaudium. L’esortazione apostolica, che in verità si presenta innovativa anche nel genere letterario e nello stile, ha il suo primo guadagno teologico-pastorale nel ricentrare l’identità e la missione della Chiesa sull’essenziale, che è l’annuncio del Vangelo.
Il messaggio è chiaro sin dal suo incipit:
«La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù… In questa esortazione desidero indirizzarmi ai fedeli cristiani, per invitarli a una nuova tappa evangelizzatrice marcata da questa gioia e indicare vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni» (EG 1).
Siamo allora invitati a chiederci se davvero, nella Chiesa italiana, è stata innescata quella trasformazione necessaria per rimettere il Vangelo al centro, ritrovare la gioia della fede e affrontare le sfide presenti e future del cristianesimo.
Un inizio di conversione pastorale
Evangelii gaudium ha il merito di accendere i riflettori su una necessaria conversione pastorale della Chiesa, in chiave evangelizzatrice e missionaria. Sin dal primo capitolo, il papa ci esorta al cambiamento della mentalità pastorale, perché la Chiesa diventi «in uscita» (cf. EG 20).
Si tratta di passare da una semplice pastorale della conservazione a una pastorale missionaria che non deve essere ossessionata dalla trasmissione disarticolata di dottrine, ma concentrarsi «sull’essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e, allo stesso tempo, più necessario» (EG 35). E ciò richiede di abbandonare i criteri pastorali che mirano solo a conservare l’esistenza, per «ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità» (EG 33).
In diverse diocesi e territori italiani si incontrano piccole e grandi comunità che da Evangelii gaudium sono state messe in moto e si intravedono alcuni segnali incoraggianti: una rinnovata vivacità del Popolo di Dio, il desiderio di approfondire la fede oltre le sue forme convenzionali e devozionali, qualche coraggioso tentativo di innovazione nei linguaggi e nelle prassi pastorali; allo stesso tempo, però, sembra che l’ampio respiro in cui il documento voglia far entrare la Chiesa intera sia rallentato da una certa timidezza nella sua ricezione e da un certo affanno nell’individuare percorsi e strumenti utili al cambiamento.
Potremmo dire che c’è un inizio di conversione pastorale, ma permangono alcune questioni su cui sarebbe utile riflettere proprio alla luce della novità che emerge da Evangelii gaudium.
Sguardo
Una prima questione è la lettura parziale della realtà, che talvolta impedisce all’esortazione di papa Francesco di innescare trasformazioni reali. Si tratta di una lettura del contesto socio-culturale che, di fatto, afferma l’esistenza di un substrato tutto sommato cattolico e cristiano, tanto da non rendersi necessario nessun cambiamento davvero radicale.
Il passaggio che forse Evangelii gaudium ci chiede di fare è proprio questo: convincerci della necessità di un’evangelizzazione essenziale partendo dalla consapevolezza che il tempo della cristianità è finito ed è tramontato l’humus cristiano delle famiglie e della società che, in passato, garantiva una certa trasmissione della fede.
Ciò metterebbe in moto soprattutto i pastori e gli operatori pastorali nella direzione di un rinnovamento del «modello parrocchia», che invece generalmente procede con la sua pastorale classica e tradizionale, trovandosi con scarse energie e poco spazio per l’annuncio del Vangelo a chi è lontano o ha bisogno di riscoprire in modo nuovo la fede.
Presenza
In questa prospettiva, la seconda questione riguarda la crisi della trasmissione della fede, che invoca un nuovo modello di comunità non più centrata sul ministero del prete, ma capace di un effettivo coinvolgimento responsabile del laicato, cosicché il rinnovamento pastorale possa generare nuovi spazi di annuncio del Vangelo e proposte innovative per coloro che sono lontani e indifferenti alla fede.
Papa Francesco scrive, tra le altre cose, «sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione» (EG 27).
Questo sogno, tuttavia, invoca una nuova modalità di presenza ecclesiale sul territorio e, soprattutto, una nuova centralità della Parola di Dio e un’evangelizzazione capace di favorire un incontro vivo con Gesù.
Linguaggi
Nondimeno, un tale cambiamento invoca – terza questione – un rinnovamento dei linguaggi della spiritualità e della pastorale, che non riguarda banalmente le sole tecniche di comunicazione, ma tutto ciò che riguarda stili, le posture, i gesti, le parole dell’annuncio, il quale, a volte, può risultare moralistico, noioso, opprimente, imprigionato nella tentazione di ridurre la potenza liberante del Vangelo a una serie di norme da osservare o a forme di pietà sentimentaliste e devozionali.
Dunque, quale Parola annuncia davvero il Vangelo? Quale parola riesce davvero a comunicare la bellezza della buona notizia, il cui centro è «il Dio che ha manifestato il suo immenso amore in Cristo morto e risorto» (EG 11)?
Il Dio che Gesù ci ha rivelato è – come ha scritto splendidamente Bonhoeffer – Colui che
«dove gli uomini dicono “perduto”, lì egli dice “salvato”; dove gli uomini dicono “no”, lì egli dice “sì”… Dove nella nostra vita siamo finiti in una situazione in cui possiamo solo vergognarci davanti a noi stessi e davanti a Dio, dove pensiamo che anche Dio dovrebbe adesso vergognarsi di noi, dove ci sentiamo lontani da Dio come mai nella vita, proprio lì Dio ci è vicino come mai lo era stato prima. Lì egli vuole irrompere nella nostra vita, lì ci fa sentire il suo approssimarsi, affinché comprendiamo il miracolo del suo amore, della sua vicinanza e della sua grazia»[1].
Questo è il Dio che viene annunciato e predicato nelle nostre Chiese e il cui Volto benedetto e benedicente emerge dalle nostre prassi pastorali? Non bisogna forse ammettere che
«forse è giunto il tempo di abbandonare molte di quelle parole pie che abbiamo continuamente sulle nostre bocche e sui nostri stendardi. Queste parole, a causa di un uso continuo, spesso troppo superficiale, sono consumate, usurate, hanno perso il loro significato e il loro peso, si sono svuotate, diventando leggere e facili. Altre, invece, sono sovraccariche, rigide e arrugginite; sono diventate troppo pesanti per riuscire a esprimere il messaggio del Vangelo, la buona novella»[2].
Conclusione
Si tratta di questioni, sfide e domande aperte, che certamente non intendono oscurare quanto di buono e di bello, sulla scorta di Evangelii gaudium, in questi anni è nato anche in Italia.
Esse vogliono però incalzarci, secondo le stesse parole che papa Francesco ha rivolto ai suoi confratelli gesuiti il 24 ottobre del 2016:
«Credo che l’Evangelii gaudium vada approfondita, che ci si debba lavorare nei gruppi di laici, di sacerdoti, nei seminari, perché è l’aria evangelizzatrice che oggi la Chiesa vuole avere. Su questo bisogna andare avanti… Vi raccomando l’Evangelii gaudium, che è una cornice… L’Evangelii gaudium è la cornice apostolica della Chiesa di oggi».
Per la Chiesa italiana, allora, è ancora tempo di riflettere, di approfondire e, seguendo l’impulso dello Spirito, di cambiare.
[1] D. Bonhoeffer, Riconoscere Dio al centro della vita, Queriniana, Brescia 2004, 12s.
[2] T. Halík, Pazienza con Dio, Vita e Pensiero, Milano 2020, 23.
- Pubblicato su Vita pastorale, n. 6/2024.
di: Francesco Cosentino