La chiesa: casa di preghiera…

Beato chi abita
la tua casa:
senza fine
canta le tue lodi

Sal 83

Ogni chiesa è una costruzione consacrata alla preghiera della comunità, una casa di preghiera. Ma non andiamo troppo direttamente al secondo termine “preghiera”, sostiamo invece sul primo “casa”, ossia una costruzione dell’uomo. Si ristruttura a fondo una chiesa per abitarla meglio, per celebrarvi ancora più degnamente la liturgia, in altre parole per viverla oggi e perché sia viva oggi. Sì, ristrutturare le mura e gli spazi della propria casa – per la comunità cristiana della propria chiesa, casa di preghiera – significa non cessare mai di ricostruirsi per rinnovare se stessi e la comunità, al fine di riappropriarsi dei valori e dei significati che ogni costruzione umana porta in sé. Ristrutturare è far abitare meglio.

La costruzione, infatti, è emblematica dell’attività umana, perché costruire è l’azione umana per eccellenza, è l’attività creatrice per antonomasia. Per costruire con successo occorre sempre considerare l’altro. In particolare una chiesa deve accogliere l’altro, divino e umano. Si costruisce per abitare insieme all’altro. Per ogni persona come per una comunità, abitare è affermare la propria esistenza nei limiti dello spazio e del tempo. Ogni abitazione ha una durata, riparo per la notte o casa per la vita. Nel saggio Costruire, abitare, pensare, Heidegger ricorda che l’abitazione è il tratto fondamentale della condizione umana e scrive: “Il modo in cui tu sei e io sono, il modo in cui noi umani, siamo sulla terra è l’abitazione. Essere umani significa: essere sulla terra come mortali, cioè abitare”. Di conseguenza l’abitazione partecipa della condizione umana: “Costruire significare fare abitare”. Se la costruzione è il simbolo dell’azione umana, l’abitare è il simbolo della condizione umana.  Per tutte queste ragioni, costruire è l’archetipo della costruzione sociale, dell’elaborazione di un gruppo umano, di una società: a ogni costruzione corrisponde un progetto di società e il suo senso dell’umano. E nel caso di una chiesa?  La chiesa è il luogo dove Dio incontra il suo popolo, e dunque il luogo dove la comunità abita con il suo Signore ma anche abita con se stessa. La chiesa è il progetto di comunità cristiana, il suo progetto di relazioni umane.

“La mia casa sarà casa di preghiera” (Lc 19,46) così annuncia Gesù facendo sue le parole del profeta Isaia. Là dove una persona o là dove una comunità prega, la preghiera ha luogo, ossia crea da se stessa uno spazio. Appunto una “casa di preghiera” cioè uno spazio in cui abitare, dove incontrarsi e ascoltarsi. Nella storia di Dio con il suo popolo, già la “tenda dell’incontro (michkan)” (Es 28,43) è il luogo voluto da Dio dove Israele si recava per ascoltare la parola. Ben al di là della sua dimensione spaziale, la tenda del convegno è l’immagine della rivelazione stessa di Dio che non è manifestazione ma parola rivolta a qualcuno, che crea l’incontro.  La caratteristica principale della tenda dell’incontro è appunto quella di essere una tenda da montare e smontare, perché segue Israele nella sua pellegrinazione nel deserto durata quarant’anni. Perché non pensare anche a ogni chiesa parrocchiale come una tenda? In fondo, il termine “parrocchia”  non viene dal greco paroikia che significa tenda? La chiesa parrocchiale segue la comunità di credenti là dove essa si trova. La ristrutturazione della chiesa parrocchiale, tutto ciò che c’è di nuovo: altare, ambone, sede, riserva eucaristica, mosaici, vetrate … sono, a ben guardare, il segno che la comunità cristiana e il Signore si incontrano sempre nell’oggi, nel qui e ora di una storia di fede in atto, sempre in cammino nel tempo e nella storia. Per questo, la chiesa della parrocchia è il segno più visibile di tutta la storia di questa comunità ma al tempo stesso è il segno tangibile dell’oggi della comunità.

Gesù stesso ha desiderato trovare una casa per celebrare con segni e parole la liturgia della nuova alleanza. “Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?” (Mc 14,14). Alla vigilia della sua passione e morte, Gesù consegna ai due discepoli da lui inviati questa domanda da rivolgere al padrone di un’anonima casa di Gerusalemme che prenderà il nome da ciò che in essa sarebbe avvenuto quella stessa notte: Cenaculum.  “Dov’è la mia stanza?”: il luogo dove Gesù celebrerà l’ultima Pasqua con i suoi è da sempre sua, appartiene a lui, il Signore. Perché la Pasqua che in essa si celebrerà è diversa da ogni altra Pasqua, è la sua Pasqua che fece sua ogni cosa. Quella stanza è “la mia stanza”, perché quell’anno l’agnello pasquale fu lui, così come il pane spezzato all’inizio della cena fu “il mio corpo” e il calice di vino “il mio sangue”. Quella fu “la cena del Signore” (1Cor 11,20) come la chiamerà Paolo ricordando ai cristiani di Corinto quello che quella notte avvenne. Con l’abituale intelligenza spirituale Girolamo così traduce la domanda: “Ubi est refectio mea?”, ossia dov’è il mio luogo di ristoro, il mio luogo di riposo, il mio luogo di nutrimento?

“Dov’è la mia stanza?”: una domanda che invia a cercare, trovare un luogo già pronto: “Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sale, arredata e già pronta; li preparate la cena per noi” (Mc 1415). Da quella notte, ogni luogo in cui si celebrerà “la cena del Signore” è “la mia stanza”, quella grande sale, arredata e già pronta dove preparare “la cena per noi”. Ogni chiesa cristiana è la refectio, come vuole Girolamo, luogo di ristoro, di riposo, di nutrimento spirituale.

Goffredo Boselli