Eucaristie “a porte chiuse” per evitare il contagio: risonanze a bassa voce su una scelta di emergenza che forse svela ciò che veramente pensiamo della liturgia e dell’essere Chiesa che celebra. Finito il periodo di isolamento bisognerà riparlarne.
Per la prima volta la Chiesa deve fronteggiare una pandemia gestita con criteri scientifici, che consigliano l’isolamento delle persone. La situazione è difficile, a tratti inquietante, e merita tutto il nostro rispetto e la nostra attenzione a cominciare dalla vicinanza (come possibile) a chi soffre ed è più solo. Non è stato per niente facile decidere che cosa fare a livello ecclesiale. La decisione di sospendere ogni attività e la celebrazione eucaristica, per seguire le indicazioni degli esperti che raccomandano l’isolamento per fermare il contagio e salvare la vita di tanti, è stata tanto faticosa quanto meritoria. D’altra parte la modalità in cui essa è stata realizzata merita qualche riflessione, perché ci aiuta a fare luce su che cosa pensiamo sia la celebrazione eucaristica e la Chiesa stessa.
Partiamo con l’osservazione che in realtà le celebrazioni non sono state sospese, ma per lo più continuano “a porte chiuse” o “senza popolo”. Questa scelta si basa sull’idea che la Chiesa non possa fare a meno di celebrare, ma di fatto dichiara con estrema scioltezza che per celebrare non è necessario riunire il popolo, se questo non fosse possibile per gravi problemi. I ministri si radunano fra loro (o con qualche fedele per evitare, meritoriamente, di celebrare da solo) e gli istituti religiosi maschili chiudono la porta realizzando una celebrazione privata. Nessuno lo farebbe se non fosse costretto, d’accordo, ma il punto è che pensiamo che, seppure in situazione di emergenza, si possa fare. Ed è proprio questo che dovrebbe farci riflettere: forse in situazione di emergenza tiriamo fuori quello che siamo davvero ed è giusto provare a vederlo.
Prima del pane e del vino, l’assemblea
Dovremmo sapere bene che, quando celebriamo l’eucaristia, anzitutto raduniamo il popolo. Si costituisce un’assemblea, non predeterminata o selezionata, ma convocata dallo Spirito: questa è la prima materia per poter poi celebrare. Il popolo convocato serve prima del pane e del vino e senza di esso non si dà eucaristia. Il ministro che di volta in volta presiede un’assemblea rende possibile con il proprio ministero (imposizione delle mani e preghiera) il gesto che l’assemblea deve compiere (prendete e mangiate) per essere un corpo solo (il corpo di Cristo reso presente proprio dall’«essere uno» di questi che mangiano l’unico pane). Va da sé che, se questa è l’eucaristia, non è possibile che essa venga celebrata se non si può radunare il popolo.
Che cosa facciamo allora in questo momento quando celebriamo “senza popolo”?
Probabilmente riattingiamo al modello tridentino secondo il quale il ministro (col popolo o senza è secondario, come il pubblico per le partite di calcio) offre il sacrificio a Dio per tutti. Non siamo più di fronte all’atto del popolo (questo il significato della parola “liturgia”), ma ad un rito del solo presbitero cui si possono associare altri fedeli presenti o (sic!) via web.
La prassi che abbiamo scelto in questa emergenza mette seriamente in discussione la riforma liturgica dell’ultimo concilio e, con essa, il modello di Chiesa che la sostiene. Il messaggio che passa è che sono i ministri che possono pensare a tutto quello che serve, il popolo deve seguire, come i tifosi la propria squadra o come i followers il loro autore di tweet. So che le intenzioni non sono queste, ma quelle di sostenere tutti con la preghiera. D’altra parte la preghiera può essere fatta a prescindere dal gesto eucaristico (pensiamo davvero che la preghiera di chi rimane senza celebrazione valga di meno di quella di chi riesce a celebrare?) che ha invece una sua precisa natura, per la quale è essenziale radunare il popolo perché possa essere reso un corpo solo dal dono che Cristo fa di sé.
Ritorno alla «societas inequalis»
Se dichiariamo il popolo accessorio per la liturgia, torniamo alla societas inequalis centrata sulla prassi sacramentale: niente sacerdozio battesimale, niente sinodalità, niente centralità dell’evangelizzazione. E, infatti, ci siamo preoccupati (fatte le dovute eccezioni) di mandare messe in streaming, non di insegnare a pregare in famiglia né di intensificare la predicazione con i canali (qui sì che le tecnologie digitali vengono in aiuto) adeguati ad un processo comunicativo come quello che la predicazione realizza e che – in questo caso si può ammettere perché l’atto non ne è snaturato – può fare a meno della presenza fisica in situazione di emergenza.
Le scelte fatte, invece, che prevedono celebrazioni “senza popolo”, non solo contraddicono l’atto liturgico eucaristico, ma dividono la stessa comunità ecclesiale: abbiamo da una parte ministri, che trovano gruppi di religiosi/religiose o qualche laico scelto con cui celebrare, e tutti gli altri tenuti fuori. In qualche modo si ripete – pur non essendo questo nelle intenzioni di nessuno – quanto Paolo denunciava nella prima lettera ai Corinzi (11,17-34) riguardo le celebrazioni che invece di realizzare il gesto di Cristo (mangiare insieme l’unico pane per essere un solo corpo) realizzavano divisioni (uno prende il proprio pasto e l’altro ha fame). Accade lo stesso oggi: alcuni celebrano e altri no, e in questo modo rendiamo la celebrazione non il luogo dell’unico corpo, ma quello della divisione.
Forse era meglio digiunare tutti
Forse digiunare tutti – ma ripeto, la situazione era del tutto nuova e difficilissima, per cui trovare la via era davvero impervio – avrebbe realizzato in modo più pieno il gesto di Gesù che ha dato sé stesso perché i suoi fossero un corpo solo e, così, vivessero in mezzo agli altri dando sé stessi come lui, come una memoria perpetua e vivente del gesto di lui.
In paesi di altri continenti spesso il popolo deve rinunciare a celebrare perché non ha chi può presiedere e quindi rendere possibile il gesto di tutti; noi forse avremmo potuto rinunciare a celebrare perché non possiamo radunare il popolo che è il protagonista del gesto eucaristico. Non è successo perché magari non abbiamo ancora maturato una tale coscienza e pensiamo che in fondo sia il presbitero il protagonista della celebrazione eucaristica, quindi di lui non si può fare a meno (vedi appunto i paesi in cui sono costretti a celebrare raramente per carenza di ministri) ma del popolo sì. Pensano questo non solo tanti ministri, ma anche gran parte del popolo che preferisce sapere che qualcuno “dice messa” alla quale ci si può unire “spiritualmente”, piuttosto che sapere di essere così indispensabile da non potersi dare celebrazione senza la possibilità di radunare il popolo stesso.
Adesso non è il momento, dobbiamo guardare all’emergenza in corso e fare il bene alla nostra portata; ma poi, una volta passata la tempesta, bisognerà confrontarsi su ciò che abbiamo vissuto e scelto, per porre gesti coerenti col significato che hanno e per crescere nell’unità, che sola può rendere presente il Risorto.
Simona Segoloni