Imparare la speranza

La speranza non è fuga, ma è responsabilità verso l’oggi e il domani, che per il cristiano è apertura sull’eterno. Il nostro secolo di questa misura di speranza ha urgente bisogno

Fra pochi giorni, in chiusura imminente di anno e in apertura di giubileo — tempo di riposo e di sosta, di misericordia e di responsabilità — saremo invitati a meditare sul tema della speranza. Ne abbiamo bisogno, in questo contesto attuale, così strappato in brandelli, così lacerato in dolori, in cui si fatica a ricomporre l’oggi, soffocando nelle urgenze del presente uno sguardo a un futuro buono possibile. Ed è un bene, pur nell’inflazione che ogni tema decisivo comporta quando è posto in rilievo di massa, avere l’opportunità di interrogarci su quale speranza coltiviamo, come persone, come comunità, persino come mondo.
Al Novecento delle utopie che hanno attratto e poi ridotto i movimenti della speranza, legandola a sé nel loro tramonto, il XXI secolo non ha ancora saputo opporre che piccole mete, stretti orizzonti, amministrazioni dell’ordinario. Di speranza vi è urgenza, con il suo carico di tensione verso il domani, il suo portato di profezia, la sua chiamata alla responsabilità per l’oggi e, per chi ha fede, nel suo intersecarsi con l’eterno di Dio, nello schiudersi del tempo oltre il tempo.

Nella icastica definizione dantesca di speranza, che il poeta sigla in Paradiso in risposta all’esame di san Giacomo, là dove dice che «Spene», diss’io, «è uno attender certo / de la gloria futura», (Paradiso XXV, traducendo Pietro Lombardo e, con lui, il magister Bandinus), vi è una traccia di direzione che nutre la speranza: essa diviene attesa, fondata nella certezza e rivolta al futuro, un’attesa che possa così animare l’oggi e anche il domani, che avanza verso la gloria futura.
Per i credenti, la speranza è sorella della fede, sebbene, annotava Charles Peguy in versi splendidi, essa sia la sorella trascurata: «La piccola speranza avanza fra le due sorelle maggiori e su di lei nessuno volge lo sguardo», eppure è lei «a far camminare le altre due» (Il portico del mistero della seconda virtù, poemetto su cui ci farà bene ritornare spesso, nei mesi a venire).
Per l’autore della Lettera agli Ebrei, la speranza giace e riposa sulla fede: ««La fede è fondamento di ciò che si spera»: versetto che Miguel de Unamuno parafrasava con finezza: «La fede è, pertanto, fede nella speranza: crediamo ciò che speriamo».  Noi, uomini e donne in cammino, crediamo ciò che speriamo, diamo fiducia a ciò verso cui tendiamo e che desideriamo essere possibile, dando così radice all’esistere:

La speranza è il nostro intimo
fondamento,
il sostegno della vita;
la speranza è ciò che vive;
solo riceve vita chi spera.

Sono ancora versi di Unamuno, così profondi nel loro intrecciare, indissolubilmente, vita e speranza: «la speranza è ciò che vive», poiché «solo riceve vita chi spera», dove per vita si intenda quel radicarsi nel qui e ora con sguardo al dopo, con posture attive, con fame di futuro, con responsabilità per il momento presente, per sé e per altri: poiché la speranza, se è vera, non è mai fuga, ma — come ricordava Ernst Bloch in Principio speranza — apre l’io, nel suo anelito universale, nel suo sogno, nel suo desiderio che tutti abita, verso una condizione che sia già per l’oggi migliore. Per chi crede, significa non farsi vincere da una tentazione sempre viva, ossia quella di posticipare nel Regno che verrà, alla parousia, l’etica della speranza, con la consapevolezza che l’escatologia non rigetta il presente, ma, anzi, lo illumina e lo orienta, secondo la lezione di Moltmann e della sua Teologia della speranza: se riteniamo affidabile la promessa di un ritorno del Cristo, non possiamo rifiutare la sua incarnazione nella storia, quella storia verso cui sentirsi responsabili e verso cui sperare un affresco di migliore umanità. Che tutto ciò nel concreto del nostro quotidiano richieda la necessità di imparare la speranza («l’importante è imparare a sperare», è ancora Bloch), non concedendo spazio al male che c’è, perché esso non si renda padrone dell’avvenire.

È educazione di sguardo, di sentimento, di vita, varcando il piccolo confine delle nostre rassicurazioni o dei nostri pessimismi: «Talora ci si accontenta di tenere in pugno, ben stretto, qualche granello di spiga, e non si vuol proprio vedere il biondeggiare di campi sconfinati, promettenti di speranza»: così scriveva Carlo Maria Martini in Ripartire da Emmaus. L’atteggiamento è davvero quello del seminatore, di chi getta il seme affidandolo (e affidandosi) al futuro, che per il cristiano non esclude, ma abbraccia la dimensione dell’eterno, poiché egli «non soltanto agisce nel tempo, ma attende i frutti d’eternità il cui seme egli semina nel tempo. E questa è la sua speranza»: è la felice intuizione di Madeleine Delbrêl. Dunque, i pellegrini della speranza che sono i cristiani ‘seminano nel tempo’ per un ‘frutto d’eternità’, pur sempre, però, non dandosi per vinti e non abdicando al presente e, in questo modo, dando senso ai propri giorni, poiché la speranza ci apre al desiderio e, quindi, alla letizia: «La vita attiva è condotta quaggiù, tramite la fede, nel pellegrinaggio su questa terra, dove la beatitudine è soltanto nella speranza» (Meister Eckhart, Commento al Vangelo di Giovanni).

Sergio Di Benedetto