
La comunicazione del Presidente del Consiglio Mario Draghi, relativa alla fine dell’emergenza sanitaria per il prossimo 31 marzo, non può non farci tirare un sospiro di sollievo. Da più parti si auspicava un ritorno alla “normalità”, ossia alla vita nel suo insieme prima della pandemia. In ambito ecclesiale in questi ultimi anni da più parti si è detto e si è scritto che il virus ha fatto da evidenziatore delle tante problematiche in seno alla Chiesa e dei suoi precari equilibri.
Viene allora da chiedersi: ma nella Chiesa è davvero auspicabile che tutto ritorni come prima, oppure siamo chiamati a rinunciare a qualcosa per un effettivo rinnovamento ? La conversione pastorale a cui siamo chiamati, come pastori e laici, vuole ricollocare il vangelo al centro di ogni programma e strategia pastorale.
Sappiano inoltre, che nei secoli, la parrocchia ha visto stratificarsi ruoli, mansioni, ministeri, incombenze, pratiche, strutture, riti, devozioni: tutto ‘materiale’ che, a mano a mano, si è accumulato e fossilizzato, posandosi sovente per inerzia e soffocando la gioia del del vangelo.
Ma oggi, cosa di tutto quel patrimonio è di slancio e cosa, invece, è di inciampo? Cosa corrisponde a quanto viviamo, al tempo e al luogo che ci sono dati, alla Parola che ci è affidata, e invece cosa possiamo lasciare da parte? O meglio: cosa dobbiamo lasciare da parte, perché non radicalmente evangelico, non fondativo né irrinunciabile?
Ciò che non serve, appesantisce e rallenta il passo: è una regola che ogni pellegrino conosce. E oggi noi dobbiamo avvertire con forza che abitiamo una chiesa in pellegrinaggio, verso una trasformazione che ci permetta di stare nel mondo con semplicità evangelica.
Se vogliamo attraversare da cristiani il nostro tempo ˗ con occhio vigile, critico e umano ˗ dobbiamo chiederci cosa non ci è più utile nel culto, nell’organizzazione dei ruoli e dei compiti, nella stessa ministerialità liturgica, nel possesso dei beni, e cosa al contrario riteniamo fondamentale.
Dunque, a cosa rinunciare? È una domanda dolorosa, perché richiede sia spoliazione sia libertà, ma non rimandabile: altrimenti, la storia sceglierà per noi, andando ad assegnarci un posto di spettatori, di passivi giocatori seduti in panchina.
È una domanda che riguarda il clero: cosa, inevitabilmente, il presbitero può e deve lasciare da parte? A cosa può invece dedicarsi perché è intrinseco e costitutivo alla sua forma di vita come “uomo tra gli uomni a servizio degli uomini (Paolo VI)?
Si dirà (troppo facile): il prete deve rinunciare al clericalismo! Ma poi, nella concretezza, cosa vuol dire tutto ciò? Forse significa essere molto concreti nell’individuare quali responsabilità affidare ad altri, quale gestione del tempo, degli spazi e del denaro rivedere e condividere. Forse ci si deve interrogare su quali stili di vita e di gestione del potere devono essere abbandonati, perché non evangelici né più consoni con il nostro tempo, con i suoi ritmi, numeri, condizioni, consapevolezze scientifiche, teologiche, sociali, antropologiche.
Ma ugualmente i laici cosa devono abbandonare, per essere davvero ispirati dalla grazia battesimale? Forse devono abbandonare devozioni, forme di pigrizia intellettuale e spirituale; forse è il momento di lasciare timidezze e false reverenze, o forse si devono rileggere le aspettative e le attese che riversano sul clero.
O, ancora, forse lo Spirito chiama a nutrire il dibattito ecclesiale, ai vari livelli, avendo anche il coraggio della profezia e dell’audacia, sempre con la penetrante capacità di leggere i segni dei tempi.
E i vescovi, in fondo protagonisti del Sinodo, a cosa devono rinunciare? Cosa hanno il coraggio di mettere da parte, scaricando clero e laici di pesi, responsabilità, compiti, sciogliendo nodi e rivitalizzando energie sopite?
Ogni chiesa, ogni comunità, ogni fedele dovrebbe mettersi in cammino con questa domanda nel cuore: a cosa possiamo rinunciare?
E da qui, insieme davvero, pensare e decidere quali rami secchi il nostro essere chiesa non può più permettersi. In queste settimane, nelle campagne, è il tempo della potatura, per dare forza, linfa e fecondità alle piante. Oggi, ugualmente, siamo chiamati a potare la chiesa che abitiamo per permettere alla linfa dello Spirito di essere feconda, generativa e pronta per le stagioni che verranno.
Don Alessandro