II domenica di Pasqua; commento al vangelo

Letture: Atti degli Apostoli 5,12-16; Salmo 117; Apocalisse 1,9-11a.12-13.17-19; Giovanni 20,19-31

I discepoli erano chiusi in casa per paura. Casa di buio e di paura, mentre fuori è primavera: e venne Gesù a porte chiuse. In mezzo ai suoi, come apertura, schema di aperture continue, passatore di chiusure e di frontiere, pellegrino dell’eternità. Come amo le porte aperte di Dio, brecce nei muri, buchi nella rete (F. Fiorillo), profezia di un mondo in rivolta per fame di umanità. Venne Gesù e stette in mezzo a loro. Nel centro della loro paura, in mezzo a loro, non sopra di loro, non in alto, non davanti, ma al centro, perché tutti sono importanti allo stesso modo. Lui sta al centro della comunità, nell’incontro, nel legame: “lo Spirito del Signore non abita nell’io, non nel tu, egli abita tra l’io e il tu” (M. Buber). In mezzo a loro, senza gesti clamorosi, solo esserci: presenza è l’altro nome dell’amore. Non accusa, non rimprovera, non abbandona, “sta in mezzo”, forza di coesione degli atomi e del mondo.

Pace a voi, annuncia, come una carezza sulle vostre paure, sui vostri sensi di colpa, sui sogni non raggiunti, sulla tristezza che scolora i giorni. Gli avvenimenti di Pasqua, non sono semplici “apparizioni del Risorto”, sono degli incontri, con tutto lo splendore, l’umiltà, la potenza generativa dell’incontro. Otto giorni dopo Gesù è ancora lì: li aveva inviati per le strade, e li ritrova ancora chiusi in quella stessa stanza. E invece di alzare la voce o di lanciare ultimatum, invece di ritirarsi per l’imperfezione di quelle vite, Gesù incontra, accompagna, con l’arte dell’accompagnamento, la fede nascente dei suoi. Guarda, tocca, metti il dito… La Risurrezione non ha richiuso i fori dei chiodi, non ha rimarginato le labbra delle ferite. Perché la morte di croce non è un semplice incidente di percorso da dimenticare: quelle ferite sono la gloria di Dio, il punto più alto che il suo amore folle ha raggiunto, e per questo resteranno eternamente aperte.

Ai discepoli ha fatto vedere le sue ferite, tutta la sua umanità. E dentro c’era tutta la sua divinità. Metti qui la tua mano: qualche volta mi perdo a immaginare che forse un giorno anch’io sentirò le stesse parole, anch’io potrò mettere, tremando, facendomi condurre, cieco di lacrime, mettere la mia mano nel cuore di Dio. E sentirmi amato. Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto! L’ultima beatitudine è per noi, per chi fa fatica, per chi cerca a tentoni, per chi non vede e inciampa, per chi ricomincia. Così termina il Vangelo, così inizia il nostro discepolato: con una beatitudine, con il profumo della gioia, col rischio della felicità, con una promessa di vita capace di attraversare tutto il dolore del mondo, e i deserti sanguinosi della storia.

P. Ermes Ronchi
Avvenire

In questa seconda domenica di Pasqua, detta anche della Divina Misericordia, la liturgia della parola ci fa leggere il vangelo dell’apparizione di Gesù a Tommaso. Il discepolo, assente alla prima apparizione del Risorto, è incredulo, ha difficoltà a credere agli amici che gli dicono di aver visto il Signore Gesù. Giovanni annota che Tommaso disse ai discepoli: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo la sua resurrezione, il Risorto si manifesta per la seconda volta ai suoi discepoli e, questa volta, è presente anche Tommaso. Con infinita pazienza il Signore, rivolgendosi a questo apostolo incredulo, dice: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere più incredulo, ma credente!». Allora il discepolo giunge finalmente a comprendere ed esclama: «Mio Signore e mio Dio!». Questa risposta di Tommaso è una confessione di fede totale e perfetta che non ha eguali in tutto il Nuovo Testamento.

È faticoso giungere alla fede nella resurrezione, per noi come per Tommaso. Egli non ha avuto bisogno di «mettere il dito», eppure ha dovuto vedere con i suoi occhi; ma è grazie a lui che Gesù, riconoscendo la fede di Tommaso, pronuncia la sua ultima beatitudine: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Tommaso, chiamato Didimo, che significa gemello, certamente non brillava per l’umiltà. È stato diffidente nel credere alla resurrezione del Signore. La sua diffidenza aveva certamente una radice di presunzione. Certamente avrà pensato: “Come può Gesù apparire agli altri mentre io ero assente?”. Oggi tanta gente assomiglia a Tommaso perché ha difficoltà a credere. Quante volte, soprattutto nei momenti di difficoltà, malattia, sofferenza, facciamo fatica a credere nel Signore. Quante volte diciamo: “Dio mi ha abbandonato!”. Dio non abbandona nessuno; siamo noi che ci allontaniamo da lui e lo abbandoniamo perché il nostro cuore è chiuso al suo amore, alla sua misericordia. Il nostro cuore, purtroppo, è incrostato di presunzione, arroganza, superbia!

E allora chiediamoci: ma noi crediamo realmente nel Risorto? Noi che siamo cristiani, che argomenti offriamo per aiutare gli altri a credere? La fede ha bisogno di testimonianza: noi che esempio diamo a coloro che cercano il Signore? Non è possibile, diceva santa Madre Teresa di Calcutta, andare a Messa, impegnarsi nell’apostolato, e poi scandalizzare le persone con il nostro comportamento egoistico, presuntuoso e superbo. Ricordiamoci che Dio non guarda l’aspetto esteriore, come facciamo noi, ma il nostro cuore. Tutti noi che ogni domenica, giorno del Signore, ci raduniamo come comunità cristiana in ascolto della parola di Dio contenuta nelle Sacre Scritture, per l’azione dello Spirito Santo e con l’aiuto di Maria Santissima impariamo a vincere l’incredulità e soprattutto abbiamo il coraggio di spalancare la porta del nostro cuore al «Vivente, a Colui che era morto ma ora vive per sempre» (II Lettura) per testimoniare, con segni di amore fraterno, la Risurrezione del Signore Gesù.

Don Lucio D’Abbraccio