Qualche giorno fa ho incontrato le terze medie della mia scuola per «Lezioni di futuro», un ciclo di incontri in cui alcuni insegnanti raccontano il proprio percorso per aiutare gli studenti a riflettere sulle loro prossime scelte vocazionali. Alla fine uno di loro mi ha detto: «Il suo intervento mi è piaciuto perché non ci ha trattato da bambini, ci ha presi sul serio». Trattare gli adolescenti come bambini è una conseguenza della pedagogia del controllo: infantilizzare è infatti una strategia paternalistica che paralizza le energie creative (ti uso finché mi servi). Lo riscontro anche in ambito politico (non ci sono cittadini da promuovere ma un pubblico da manipolare) ed economico (le persone sono «risorse umane», materia da sfruttare fino all’esaurimento). Moltissime de-pressioni sono frutto di queste re-pressioni (politiche, economiche, educative). Non intendo depressioni cliniche ma l’esaurirsi dell’iniziativa personale descritto dal protagonista di Estensione del dominio della lotta di Michelle Houellebecq: «Il desiderio stesso scompare; non restano che l’amarezza, l’invidia e la paura. Soprattutto, resta l’amarezza; un’immensa, inconcepibile amarezza. Nessuna civiltà è stata capace di sviluppare nei propri appartenenti una tale quantità di amarezza… se dovessi riassumere in una parola lo stato mentale contemporaneo, sceglierei senza dubbio questa: amarezza». Possiamo curare questa amarezza per ritrovare energia creativa e spirito di iniziativa?
Il grande neuroscienziato Antonio Damasio che ha dimostrato che il cervello è in ogni punto del corpo e che la separazione tra ragione ed emozioni è falsa e controproducente, nel libro L’errore di Cartesio racconta che i pazienti con lesioni ai lobi frontali del cervello, la zona deputata a ricevere le emozioni (parola che viene dal latino e-motum, mosso da), vivono solo nel presente, sono reattive e non attive, incapaci di futuro: «I sistemi neurali che avrebbero consentito loro di imparare che cosa preferire e che cosa evitare non funzionano bene, e perciò non sono in grado di produrre risposte adeguate a una situazione nuova». Damasio parla di «miopia di futuro» con un paragone illuminante: la tendenza a puntare tutto sull’oggi ignorando il domani «nei pazienti con lesioni ai lobi frontali acquista una dimensione soverchiante, che può schiacciarli. Si potrebbe descrivere il loro disagio come «miopia rispetto al futuro», adottando il concetto proposto per spiegare il comportamento di individui sotto l’influenza dell’alcool o di altre sostanze. Lo stato di ebbrezza restringe il panorama del nostro futuro, tanto che quasi nulla che non appartenga al presente viene elaborato con chiarezza». Il blocco della catena emozioni-pensieri-azioni in relazione al futuro è simile a ciò che accade a chi è ubriaco o drogato. Nel relazionarmi con tanti ragazzi riscontro questa miopia di futuro, dovuta a ogni tipo di dipendenza e in particolare a quella da eterno presente: la ricezione passiva e continua di «sensazioni» (digitali e non) ipnotizza i sensi e fa sbiadire il domani (da cercatori di senso a cercatori di sensazioni). Sappiamo bene che un bambino cresce attraverso ciò che gradualmente lo allontana dallo stato «fusionale» (nessuna interruzione del piacere e dello stato di dipendenza) con le cose, che riproduce il rapporto con la madre (infatti quando chiede un altro gelato se invece di darglielo gli si sventola davanti agli occhi un rumoroso mazzo di chiavi, lo afferra e lo porta alla bocca, e impara che quelle sono «chiavi»: scopre il nuovo grazie a un vuoto che è in realtà un pieno). A volte questa separazione/privazione è semplicemente la noia da cui deve tirarsi fuori in-ventando (che in latino significa trovare), cioè dando significato a un mondo che lo ha perso (la noia è infatti l’emozione/pensiero di un mondo in cui «non so che fare»). La continua soddisfazione del piacere fusionale rende dipendenti, «lobotomizza» come l’ebrezza o la dose. La miopia del futuro si manifesta quindi come mancanza di iniziativa, di creatività e di azione, perché l’immaginazione, motore del futuro, è ingolfata. Ai giovanissimi viene detto continuamente che cosa devono guardare, sentire, fare, comprare: addestrati ed esauriti. Ma basta ricordare loro che non sono qui per consumare e consumarsi, ma per creare e (ri)crearsi, come si impone all’evidenza del loro corpo: sta diventando erotico, cioè capace di dare la vita. Questa trasformazione energetica del corpo/mente oggi è spesso catturata e sacrificata sull’altare dalla continua soddisfazione: oggetti non progetti, passività non attività. Così si spegne quello che chiamiamo «spirito di iniziativa»: che vuol dire? Che da lì scaturiscono le azioni di futuro, cioè quelle che posso compiere solo io perché sono io. Che cosa creo io oggi? Educare non è addestrare, ma mettere in condizione di creare, però non può essere creativo, cioè agire in modo inedito, chi non attinge alla fonte della propria creatività: lo spirito. Per questo io dedicherei la prima mezz’ora della giornata scolastica a esercizi spirituali, pratiche secolari che accomunano tutte le culture più grandi del pianeta con un unico scopo: ricordati di vivere. L’oblio della vita ci prende quando il nostro io creativo è soffocato da paura, ignoranza di sé, illusioni e dipendenze. Per rimettere «a fuoco» il futuro, bisogna esercitarsi nel chiamare a raccolta quelle energie che ci fanno resistere alle re-pressioni e alle distrazioni a cui ci abbandoniamo. I Greci chiamavano questa pratica/processo enthymesis, entrare nel cuore, che infatti significa anche: meditare, immaginare, progettare, creare e desiderare ardentemente. Un esercizio che Etty Hillesum, ragazza ebrea morta nei campi di concentramento, scelse di praticare per resistere alla violenza nazista e all’amarezza in cui stava precipitando: «Mi guarderò dentro per una mezz’oretta ogni mattina, prima di cominciare a lavorare: ascolterò la mia voce interiore. Sprofondare in se stessi. Si può anche chiamare meditazione; ma questa parola mi dà ancora i brividi. Una quieta mezz’ora dentro me stessa. Non è sufficiente muovere braccia, gambe e tutti gli altri muscoli nel bagno, ogni mattina. Un essere umano è corpo e spirito. E una mezz’ora di esercizi combinata con una mezz’ora di meditazione può creare una base di serenità e concentrazione per tutto il giorno. Non è però una cosa semplice, quell’ora quieta; bisogna impararla. Prima è necessario spazzare via dall’interno tutte le insignificanti preoccupazioni, i detriti. Persino in una testolina così piccola c’è sempre una montagna di distrazioni irrilevanti. Sia questo, dunque, lo scopo della meditazione: trasformare il tuo spazio interiore in un’ampia pianura vuota, senza tutta quell’erbaccia che impedisce la vista. Così che qualcosa di «Dio» possa entrare in te, come c’è qualcosa di «Dio» nella Nona di Beethoven. E anche qualcosa dell’ «Amore», ma non quella sorta di amore di lusso in cui ti crogioli, orgogliosa dei tuoi sentimenti elevati, bensì amore che puoi applicare alle piccole cose quotidiane» (8 giugno 1941 da Diari 1941-1943).
Solo interrompendo le dipendenze, l’io-infantile diventa io-creatore, autore della grandiosa sinfonia che Beethoven compose benché fosse già del tutto sordo! E diventa anche io-amore, non un io che pensa di amare ma che ama realmente chi ha davanti e in qualsiasi situazione si trovi. Creare e amare sono le azioni che permettono di essere felici ma sono «mosse» da una stessa spinta, che si chiama spirito (soffio), una parola vuota o estinta e, con la parola, ciò che indica. Una spinta che è già in noi, ma è soffocata da paure, rabbia, sensi di colpa, illusioni e alibi. Dire a dei tredicenni che questa fonte è già in loro e in modo diverso in ciascuno, ma va scoperta e/o liberata, perché da lì il futuro potrà zampillare sempre, li apre all’entusiasmo (protagonisti non marionette), li guarisce dalla miopia di futuro e dall’ansia di futuro: la prestazione di uno che funziona (fino all’esaurimento) anziché di uno che vive (fecondità). Il protagonista di Houellebecq, affetto da questo esaurimento/inaridimento della vita, a causa di un lavoro che, seppur remunerativo, lo de/reprime, e a causa dell’assenza di rapporti significativi, soprattutto d’amore, cerca invano questa fonte fuori di sé e in una fusione impossibile: «Avanzo nel folto della foresta. Al di là della collina, dice la mappa, ci sono le sorgenti dell’Ardèche. Non mi interessa più; ma procedo ugualmente. E neanche so più dove siano le sorgenti. Sento la mia pelle come una frontiera, e il mondo esterno come uno schiacciamento. L’impressione di scissione è totale; ormai sono prigioniero in me stesso. La fusione sublime non avverrà; lo scopo della vita è mancato». Non sono pessimista come il protagonista del romanzo, perché, come Etty, ho un’esperienza diversa: la sorgente c’è, in ognuno di noi, ma va cercata e liberata ogni giorno: solo così lo scopo della vita non solo non viene mancato ma si compie in modo sempre nuovo, in qualsiasi condizione ci troviamo.
Alessandro D’Avenia