Se il protagonista del Sinodo è lo Spirito e, attraverso Lui, i (suoi) desideri in noi, come discernere quelli “santi” da quelli “mondani”? Il criterio della piccolezza, della fragilità e del fallimento è ancora attuale?
Dopo aver evocato il legame tra desiderio e Spirito Santo – e mostrato il suo significato per il processo sinodale, Papa Francesco ha ricordato cosa intenda per desiderare nell’intensa omelia dell’Epifania, quasi a voler racchiudere simbolicamente il tempo natalizio dentro questo dato antropologico fondamentale che è – insieme – anche pneuma-teo-logico. D’altronde, «Dio ci ha fatti così: impastati di desiderio … noi siamo ciò che desideriamo»; per questo «la nostra vita – diceva Sant’Agostino – è una ginnastica del desiderio» ed è sempre necessario «ritornare ad alimentare il desiderio» andando «a “scuola di desiderio”»:
«Desiderare significa tenere vivo il fuoco [lo Spirito] che arde dentro di noi e ci spinge a cercare oltre l’immediato, oltre il visibile. Desiderare è accogliere la vita come un mistero che ci supera, come una fessura sempre aperta che invita a guardare oltre, perché la vita non è “tutta qui”, è anche “altrove”. È come una tela bianca che ha bisogno di ricevere colore. Proprio un grande pittore, Van Gogh, scriveva che il bisogno di Dio lo spingeva a uscire di notte per dipingere le stelle … [È] interrogarci su che cosa Dio vuole da noi … [È] nostalgia di ciò che ci manca … [È] sana inquietudine».
Sì, perché «l’inquietudine dello Spirito (…) nasce dal desiderio» ed allora ecco perché Papa Francesco ci esorta di continuo ad essere «cercatori inquieti» dai «cuori inquieti»: «abbiamo bisogno di interrogativi, di ascoltare con attenzione le domande del cuore, della coscienza, perché è così che spesso parla Dio, il quale si rivolge a noi più con domande che con risposte … Ma lasciamoci inquietare anche dagli interrogativi dei bambini, dai dubbi, dalle speranze e dai desideri delle persone del nostro tempo», così da essere «aperti alle sorprese di Dio». Solo così è possibile «percorrere strade nuove»; solo così è possibile che «lo Spirito «che fa sempre cose nuove» ci suggerisca vie nuove, strade per portare il Vangelo al cuore di chi è indifferente, lontano, di chi ha perduto la speranza ma cerca (…) “una gioia grandissima” (Mt 2,10)».
Ovviamente, il vescovo di Roma non ha una visione ingenua del desiderio. Egli lo ha chiarito bene nell’omelia tenuta in occasione della festa della Candelora (ossia della Presentazione di Gesù al Tempio), quando ha collegato l’essere «mossi» dallo Spirito Santo con le «mozioni spirituali», le «mozioni [motivazioni] interiori dello Spirito». Esse sono quei «moti dell’animo che avvertiamo dentro di noi e che siamo chiamati ad ascoltare, per discernere se provengono dallo Spirito Santo o dallo spirito del mondo». Ma il criterio di discernimento sarà costituito dal loro renderci capaci (nel caso dello Spirito Santo) di scorgere, di riconoscere la presenza dell’opera di Dio «nella piccolezza e nella fragilità», invece di pensare «in termini di risultati, di traguardi, di successo» e di muoversi «alla ricerca di spazi, di visibilità, di numeri» (come farebbe lo spirito del mondo).
Nel processo sinodale, quindi, non si tratterà solo di «verificare la qualità» dell’apostolato dell’orecchio, ma anche di «coltivare una visione rinnovata», «la saggezza del guardare – questa la dà lo Spirito», per avere «occhi che sanno “vedere dentro” e “vedere oltre”; che non si fermano alle apparenze, ma sanno entrare anche nelle crepe della fragilità e dei fallimenti», laddove si nascondono – nonostante «fatiche e stanchezze» o «delusioni» – «il bene [e] le vie di Dio».
Appare allora molto significativo quanto raccontato di recente dal cardinal Hollerich, relatore generale del prossimo Sinodo: «Quando, da giovane prete, sono arrivato in Giappone, è stato un grande choc… Con altri gesuiti, ognuno proveniente da un differente ambiente cattolico, arrivammo con un modello di cattolicesimo che tutti noi abbiamo visto molto velocemente non corrispondere all’attesa del Giappone. Per me, questo ha rappresentato una crisi. Ho dovuto astrarre da tutte le devozioni che fino ad allora costituivano le ricchezze della mia fede, rinunciare alle forme che amavo. Sono stato posto di fronte a una scelta: o rinunciavo alla mia fede perché non ritrovavo le forme che conoscevo, oppure iniziavo un percorso interiore. Ho preferito la seconda opzione. Prima di poterLo proclamare, ho dovuto diventare cercatore di Dio. Dicevo con insistenza: – Dio, dove sei? Dove sei, nella cultura tradizionale e postmoderna del Giappone? -» (La Croix, 22 gennaio 2022).
SERGIO VENTURA