Don Ivan Maffeis, dopo aver servito per oltre dieci anni la Chiesa italiana all’interno della Conferenza episcopale del nostro Paese, è stato nominato parroco a Rovereto e ha chiesto a padre Gabriele Ferrari una riflessione per i consigli pastorali della zona. L’incontro si è tenuto il 10 settembre scorso presso il Centro pastorale Beata Giovanna. Di seguito il testo dell’intervento.
Non attendetevi da me formule pastorali per questo tempo. Non so neppure se ce ne siano… e comunque sicuramente io non ne ho. Vi proporrò alcune riflessioni che sto facendo in questo tempo – dopo due anni di pandemia –, partendo dalla mia piccola esperienza e da ciò che ho vissuto, sentito e letto in questi mesi su quest’argomento.
Personalmente il Covid e i due lockdown hanno lasciato in me – come credo in altri – due desideri o bisogni: il bisogno di fiducia e speranza contro la paura e l’insicurezza e, secondo, il bisogno di relazioni umane significative.
Ne parlerò sviluppando con voi tre idee: questa è l’ora del cambiamento, dell’ascolto e del discernimento ed è l’ora della missione e della «chiesa in uscita» (Evangelii gaudium 20).
È l’ora del cambiamento e della conversione
La pandemia ha segnato un prima e un dopo nella mia storia fissando quasi un confine a partire dal quale siamo entrati in una nuova fase della nostra storia, che chiede nuove attenzioni, abitudini ed esigenze. Questo a livello personale ma anche a livello di Chiesa.
Si è aperto un tempo nuovo che ci obbliga a guardare avanti e insieme ci proibisce di ritornare al passato, di rifare ciò che si è fatto finora. Questa è purtroppo la tentazione del momento attuale. Ma è un’operazione senza futuro e contro lo Spirito. «Non ricordate più le cose passate», diceva il profeta agli israeliti che rientravano dall’esilio, «non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Is 43,19).
Purtroppo molti cristiani e anche molti preti, un po’ per paura delle novità e un po’ per pigrizia mentale, tendono a ripristinare il passato senza riflettere che questa è un’operazione impossibile e senza futuro. Infatti, ciò che ha svuotato le nostre assemblee liturgiche non è stata la pandemia e neppure la perdita di importanza della fede e della religione agli occhi di tante persone, sono fatti che la pandemia ha solo evidenziato o, al massimo, accelerato: fatti irreversibili di cui dobbiamo tener conto.
Per questo, papa Francesco – ben prima della pandemia – ha chiesto a tutta la Chiesa «una conversione pastorale e missionaria che non può lasciare le cose come stanno» (Evangelii gaudium 2014, n. 25).
«Si deve cambiare!», ha perentoriamente ripetuto al Convegno sulla pastorale delle città (novembre 2014) e poi, il 15 novembre 2015, alla Chiesa italiana riunita a Firenze, affermando che siamo davanti a un «cambiamento di epoca» che richiede un cambiamento della pastorale, così difficile per le nostre Chiese, eppure così necessario.
Le chiese si stanno svuotando, matrimoni e battesimi diventano rari… resistono solo i funerali! Il 60% dei giovani oggi non pratica più, perché ritiene inutile la religione e dichiara di vivere bene anche senza Dio e, altro sintomo preoccupante, le quarantenni stanno abbandonando la pratica cristiana.
Non bastano questi segni per credere che è ora di cambiare rotta e passo e impostare un nuovo corso pastorale? «È finito il tempo della cristianità», ha detto, senza mezzi termini, il papa alla Curia romana il 21 dicembre 2019.
È l’ora del discernimento
Proprio perché è il tempo del cambiamento, dobbiamo cercare con creatività e audacia nuovi cammini pastorali per far uscire la Chiesa dalla situazione di esculturazione in cui essa è finita. Se vogliamo continuare o riprendere a trasmettere la fede, bisogna trovare strade nuove.
Ma per cambiare in modo autentico e intelligente bisogna fermarsi e mettersi in ascolto di «quello che lo Spirito dice alle Chiese» (cf. Ap 2-3). L’invito rivolto alle sette Chiese dell’Apocalisse per un tempo di crisi, è valido anche per questo momento storico. Nessun cristiano – e ancora meno un consiglio pastorale – può dispensarsi dall’ascoltare lo Spirito.
Fedele alla tradizione non è chi ripete quello che si è sempre fatto, ma solo chi tende l’orecchio e il cuore a quello che lo Spirito Santo vuol dire alle comunità.
È tempo di discernere ciò che Dio ci vuol far comprendere attraverso gli avvenimenti della storia e le attese della gente disorientata e paurosa per questa crisi sanitaria che arriva dopo altre tre crisi succedutesi in questo inizio di secolo. Non è anzitutto l’ora del fare ma dell’ascoltare.
Che cosa si attende, in generale, la gente dalla Chiesa oggi? Anche chi non viene più in chiesa, attende attenzione ai propri problemi concreti, cioè prossimità fatta di nuove relazioni, una parola di speranza e di fiducia che l’aiuti a reggere in questo momento critico.
Mai come ora si deve far funzionare i consigli pastorali delle comunità ecclesiali, non solo perché i preti sono pochi e i laici devono “darsi da fare”, ma perché questi consigli sono i luoghi dell’ascolto e della ricerca in cui tutti i fedeli esercitano il loro sacerdozio, la missione di partecipare alla vita della Chiesa che viene dal battesimo.
Il consiglio pastorale, prima di essere luogo di organizzazione della comunità, è luogo per individuare le vere urgenze pastorali, che non sono anzitutto quelle ad intra (per esempio, la celebrazione delle Messe, i programmi della catechesi, la celebrazione delle feste e delle attività della terza età, le processioni e pellegrinaggi o la sagra del paese ecc., che sono obiettivi in vista e a favore dei “nostri”, quelli che vengono in chiesa, cioè).
Un consiglio pastorale deve preoccuparsi dei “nostri” ma anche, e forse più, degli “altri”, per individuare i modi per farsi prossimi a “tutti”, per promuovere le buone relazioni con tutti, di integrare e far interagire le persone, di sviluppare la solidarietà, non solo di chi viene in chiesa, ma di tutti, con particolare attenzione agli “altri” per raggiungere tutti, appena possibile, con l’annuncio del regno di Dio che è la fraternità e l’amicizia sociale, la giustizia, la pace e la speranza che Gesù ha portato a noi con il Vangelo, come sta dicendo papa Francesco con l’enciclica Fratelli tutti.
Un consiglio pastorale fa discernimento ascoltando la storia e confrontandola con la Parola di Dio e, in questo modo, mette già in pratica quella mentalità sinodale così cara al papa e per la quale sta preparando un Sinodo della Chiesa universale.
Per questo sarete invitati a lavorare in assemblee sinodali decanali e tutto questo riporterà il popolo di Dio al proprio protagonismo, finora poco conosciuto e riconosciuto, oggi ulteriormente oscurato dalle celebrazioni in streaming dove centro e unico protagonista della liturgia e della Chiesa risulta essere (almeno nella percezione immediata) il prete celebrante davanti a un popolo che assiste alle celebrazioni: non è stata questa una pericolosa regressione preconciliare?
È l’ora della missione, della «Chiesa in uscita»
Per queste ragioni la pastorale dopo la pandemia dovrà caratterizzarsi – dovrebbe esserlo stata anche prima – per la sua natura missionaria, non nel senso comune dell’azione dei missionari ad gentes, ma per la tensione a riprendere il primo annuncio della Parola rivolto a tutti per offrire nuovamente l’abc del vangelo.
La Chiesa deve ancora ascoltare l’«andate in tutto il mondo» per offrire a tutti la Parola e il Sacramento, ma in questa precisa sequenza, e cioè prima la Parola e poi i sacramenti, facendo precedere l’annuncio da un approccio fatto di simpatia e di empatia, caratterizzato dall’ospitalità e dalla gratuità.
Conosciamo tutti che cosa sia l’ospitalità: chi ci ospita, si fa in quattro per offrirci il meglio che ha e, alla fine, neppure si sogna… di chiederci il conto. Tutto è gratis! Così deve essere la nostra pastorale se vogliamo che la gente si innamori di Gesù e del vangelo e venga a cercarlo, come dice Marco nel racconto della giornata di Gesù a Cafarnao: «Venuta la sera… tutta la città era riunita davanti alla porta» (Mc 1,23).
A chi s’avvicina a noi, magari per la prima volta, per favore, non chiediamo subito che si impegnino, che ritornino alla messa domenicale, che entrino nelle nostre associazioni. Accogliamoli anzitutto, chiediamo loro come si trovano, di che cosa hanno bisogno, se hanno un lavoro, se i figli trovano posto a scuola… Ma vediamo anche di andarli a cercare, se possibile, a casa loro. È stato detto con una simpatica immagine che non riporteremo la gente in chiesa suonando le campane, ma i campanelli delle case. E questo non è un compito solo del parroco! È anche nostro…
Cerchiamo di intessere relazioni personali con la gente, andando a conoscere i nuovi venuti e quelli che in chiesa non si vedono che raramente, visitando le famiglie in modo gratuito e cordiale: «Che cosa vuoi che io faccia per te?», chiede Gesù a Bar Timeo (Mc 10,51): questa deve essere la preoccupazione del pastore e della comunità prima di ogni possibile offerta delle nostre proposte pastorali.
Per pensare un nuovo approccio pastorale, sarà bene uscire da una concezione pastorale, liturgica e più in generale spirituale, fondata quasi esclusivamente sulla messa e sull’edificio sacro. La celebrazione eucaristica – sia chiaro – non è solo importante, è fondamentale, perché è fons et culmen della vita cristiana.
Tuttavia, specialmente in questo nostro tempo spesso indifferente alla fede, la sola celebrazione della messa, ripetuta in modo quasi meccanico, ostinatamente proposta e richiesta talvolta come unica azione liturgica anche nei giorni feriali, evidenzia non solo un pericoloso deficit di creatività pastorale, ma lascia poco spazio per l’incontro, l’ascolto e quindi per la formazione dei fedeli.
Bisognerà inventare nuovi modi di offrire la Parola, come ad es. la preparazione comunitaria dell’omelia, la lectio divina fatta con la comunità, la Liturgia delle ore con il popolo, e quant’altro, il tutto in tempi e modi accessibili alla gente e ai suoi impegni di lavoro…
E non limitiamoci a curare la formazione dei ragazzi dimenticando gli adulti rimasti troppo a lungo al margine della proposta pastorale.
Infine, come potrà il pastore trovare il tempo per parlare con la gente se deve correre da una chiesa all’altra per celebrare l’eucaristia che tutti vogliono a casa propria e nel tempo che loro conviene? Ecco altri motivi per cambiare la pastorale attuale.
La pastorale sarà missionaria se aprirà le porte della comunità per far uscire i fedeli e inviarli nel mondo a condividere la testimonianza della propria fede con tutti attraverso relazioni di amicizia e di fraternità, senza pretendere che chi incontriamo chieda… subito i sacramenti.
Non fondiamo più, per favore, la nostra pastorale sui “grandi” numeri di una volta, ma sul «piccolo gregge» (cf. Lc 12,32), che non significa un gruppo insignificante di fedeli, e neppure su un gruppo “scelto” (!), ma su una minoranza creativa, di gente convinta della propria vocazione battesimale, che sarà lievito di comunione, fraternità e solidarietà nel cuore della massa.
Nasceranno magari delle piccole comunità sul territorio, attorno a singole famiglie o gruppi di amici, da cui il Vangelo si diffonde non per propaganda, ma per contagio o per irradiazione, grazie alla qualità cioè della vita cristiana e delle relazioni.
Oggi tutti, anche i cosiddetti “nostri”, non ascoltano più le prediche («La nostra parola è logora», è stato autorevolmente detto) e, meno ancora, le parole normative, anche se vengono dalla suprema autorità della Chiesa, ma tutti cercano relazioni autentiche.
Tutto questo cambiamento non può realizzarsi “dentro” la forma, il modello e lo stile attuale di Chiesa, di parrocchia e di pastorale che rischia, al di là delle intenzioni, di essere escludente.
Non basta che la gente venga in chiesa. Questo poteva bastare in passato, quando venire in chiesa era l’espressione domenicale o festiva di qualcosa che già si viveva nelle case e nei quartieri.
Oggi le persone delle nostre assemblee domenicali, soprattutto urbane (ma presto sarà così ovunque), spesso non si conoscono tra di loro o hanno un legame debole o sfilacciato e assomigliano ai turisti solitari e occasionali.
Una «Chiesa in uscita», secondo Francesco, sono quei cristiani che escono dalla celebrazione eucaristica per «fare Chiesa» nei luoghi della vita.
Non basta organizzare le forme dell’annuncio e della pastorale semplicemente creando occasioni di incontro da tenersi nell’edificio ecclesiale cui invitare gli “altri”. La comunità si sposta invece dalla chiesa, luogo tradizionale delle assemblee, per creare “reti di relazioni” tra le persone, per dar vita a esperienze di amicizia, di preghiera comune e di condivisione, “decentrandosi” per riattivare in un certo qual modo quei “piccoli villaggi” di relazioni primarie che oggi stanno scomparendo ma di cui oggi si sente nuovamente il bisogno.
Sono poche idee per rimettere in moto la pastorale.
Gabriele Ferrari