XXIX domenica del Tempo Ordinario; commento al Vangelo

Letture:
Esodo 17,8-13; Salmo 120;
Seconda Lettera a Timoteo 3,14-4,2;
Luca 18,1-8

Disse una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai. Molte volte ci siamo stancati! Le preghiere si alzavano in volo dal cuore, come colombe dall’arca del diluvio, e nessuna tornava indietro a portare una risposta. E mi sono chiesto molte volte: ma Dio esaudisce le nostre preghiere, si o no? Bonhoeffer risponde: «Dio esaudisce sempre, ma non le nostre richieste, bensì le sue promesse». Pregate sempre… Pregare non equivale a dire preghiere. Mi sono sempre sentito inadeguato di fronte alle preghiere prolungate. E anche un pochino colpevole. Per la stanchezza e le distrazioni che aumentano in proporzione alla durata. Finché ho letto, nei Padri del deserto, che Evagrio il Pontico diceva: «Non compiacerti nel numero dei salmi che hai recitato: esso getta un velo sul tuo cuore. Vale di più una sola parola nell’intimità, che mille stando lontano».

Perché pregare è come voler bene. C’è sempre tempo per voler bene; se ami qualcuno, lo ami sempre, qualsiasi cosa tu stia facendo. «Il desiderio prega sempre, anche se la lingua tace. Se tu desideri sempre, tu preghi sempre» (S. Agostino). Quando uno ha Dio dentro, non occorre che stia sempre a pensarci. La donna incinta, anche se il pensiero non va in continuazione al bimbo che vive in lei, lo ama sempre, e diventa sempre più madre, ad ogni battito del cuore. Davanti a Dio non conta la quantità, ma la verità: mille anni sono come un giorno, gli spiccioli della vedova più delle offerte dei ricchi. Perché dentro c’è tutto il suo dolore, e la sua speranza.

Gesù ha una predilezione particolare per le donne sole: rappresentano la categoria biblica dei senza difesa, vedove orfani forestieri, i difesi da Dio. E oggi ci porta a scuola di preghiera da una vedova, una bella figura di donna, fragile e indomita, che ha subìto ingiustizia ma non cede al sopruso. E traduce bene la parola di Gesù: senza stancarsi mai. Verbo di lotta, di guerra: senza arrendersi. Certo che ci si stanca, che pregare stanca, che Dio stanca: il suo silenzio stanca. Ma tu non cedere, non lasciarti cadere le braccia. Nonostante il ritardo: il nostro compito non è interrogarci sul ritardo del sole, ma forzare l’aurora, come lei, la piccola vedova.
Una donna che non tace ci rivela che la preghiera è un “no” gridato al “così vanno le cose”, è come il primo vagito di una storia nuova che nasce. Perché pregare? È come chiedere: perché respirare? Per vivere! «Io prego perché vivo e vivo perché prego» (R. Guardini). Pregare è aprire un canale in cui scorre l’ossigeno dell’infinito, riattaccare continuamente la terra al cielo, la bocca alla fontana. Come, per due che si amano, il loro bacio.

P. Ermes Ronchi
Avvenire

«Intercedere è un atteggiamento molto più serio, grave e coinvolgente, è qualcosa di molto più pericoloso. Intercedere è stare là, senza muoversi, senza scampo, cercando di mettere la mano sulla spalla di entrambi e accettando il rischio di questa posizione» (C. M. Martini). “Inter-cedere” significa proprio “porsi in mezzo”, “interporsi”, compiendo un passo all’interno di una situazione difficile, coinvolti in un dialogo tra l’uomo che lotta e Dio. Ogni preghiera di intercessione, anzi ogni preghiera, è realmente un camminare tra Dio e l’uomo; è un camminare nella pazienza e nell’attesa tra un Dio che usa compassione e l’uomo che fa esperienza della sua debolezza, che è stretto nella lotta contro il peccato, che è appesantito dall’ingiustizia e dalla violenza. La liturgia della Parola di questa domenica mette bene in risalto quest’aspetto della preghiera, cogliendo due angolature che caratterizzano la dinamica dell’intercessione: la lotta e la pazienza.

Il racconto biblico di Es 17, 8-16 è puntato su Mosè e sul gesto che lui compie, dal quale dipende l’esito della battaglia: Mosè è con le mani alzate, sul monte che sovrasta la pianura in cui si combatte l’aspra e incerta battaglia dell’esercito capeggiato da Giosuè contro Amalek. E l’esito del combattimento, stando al racconto, dipende chiaramente dalla posizione delle mani di Mosè (v. 11). Quando queste sono abbassate, inerti, rivolte a terra, è Amalek a essere più forte; quando sono alzate e tese verso il cielo, è Giosuè ad avere la meglio. Non è dunque la potenza umana ad essere protagonista della battaglia, a condizionarne l’esito. La forza è legata alla mediazione trasmessa dalle mani di Mosè; è la mano dell’uomo di Dio che collega l’azione umana a quella divina. Il movimento verticale delle mani di Mosè evidenzia un riconoscimento di bisogno di salvezza che viene da Dio; diventa così il simbolo del movimento stesso della preghiera, anzi della sua stessa forza in quanto, rendendo l’uomo consapevole della propria radicale incapacità a salvarsi, lo apre alla potenza e alla misericordia di Dio.

Ma Mosè «sentiva pesare le mani» (v. 12) per la stanchezza. Lo sforzo fisico di tenere alzate le mani in tensione produce inevitabilmente stanchezza, pesantezza insostenibile. Rimanere in una preghiera che responsabilmente si fa carico della lotta e della fatica dell’uomo, e che innalza questo peso alla compassione di Dio, diventa una posizione molto scomoda. Pregare per l’altro diventa una grave responsabilità; e ciò non può che provocare fatica, lotta, sacrificio, a volte paura, resistenze, desiderio di abbassare le mani stanche. Non si può resistere a lungo, pur nel desiderio di perseverare nella preghiera. La continuità nella preghiera deve essere sostenuta. Per Mosè «presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi si sedette, mentre Aronne e Cur… sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme (‘emunah) sino al tramonto del sole» (v.12). La pietra esprime plasticamente la sicurezza, la stabilità, la fedeltà. Il non venir meno di Mosè al suo compito di intercessore è possibile solamente se la preghiera si inscrive in una dimensione ineludibile di fede. Tale fede, tuttavia, rimanda a Colui che non viene meno alla sua alleanza e deve, d’altra parte, essere sostenuta dalla comunità, che si fa testimone e partecipe di questa preghiera. Solo la solidità di Dio rende possibile la fedeltà dell’uomo e, in definitiva, la sua preghiera.

Il legame della preghiera con la fede, la sua dimensione di fatica e lotta, ritornano anche nella parabola di Lc 18,1-8, la cosiddetta parabola della vedova importuna e del giudice iniquo. Collocata subito dopo il primo discorso escatologico (Lc 17,22-37), questa parabola sottolinea uno degli aspetti della preghiera maggiormente presenti nei vangeli: il rapporto tra preghiera e vigilanza, rapporto costitutivo del tempo dell’attesa e modalità tipica dell’agire e dell’essere del discepolo di Cristo. Luca inizia la parabola con queste parole: «Diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi» (v. 1). Pregare sempre, senza scoraggiarsi, “senza incattivirsi” (questo è il senso letterale del verbo usato) mette la preghiera in rapporto con la pazienza, atteggiamento necessario per superare quella delusione provocata dal comportamento di Dio che sembra, talvolta, venire meno alle sue promesse.

Con forza, il linguaggio parabolico mette in evidenza questa dinamica della preghiera mediante il contrasto tra i due personaggi: una vedova ostinata che, senza fermarsi di fronte all’indifferenza di un giudice «che non teme Dio e non ha riguardo per alcuno» (v.2), continua a richiedere giustizia; e un giudice che è il contrario di ciò che dovrebbe essere, un uomo senza Dio né legge. Il contrasto, che serve da chiaroscuro per evidenziare il rapporto tra il credente che supplica e Dio che tarda nell’esaudire la preghiera, è certamente paradossale. Sta proprio qui la forza: se persino un giudice di quel genere è stato indotto a far giustizia, quanto più Dio «non farà forse giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui?» (v. 7). Con questo confronto, la parabola ci aiuta a comprendere sia il dramma della preghiera, sia la conversione che ogni preghiera opera nel credente.

La figura della vedova della parabola di Luca è emblematica dell’oppresso che grida giustizia. Nella supplica insistente di questa donna è espresso tutto il disagio del credente, il quale ha l’impressione che Dio, anziché intervenire, resti indifferente. Se Dio è giusto, per quale ragione l’ingiustizia trionfa nel mondo? Perché Dio tace? Ma il grido insistente e continuo della preghiera della vedova trasforma il tempo dell’attesa in una paziente ricerca in cui, poco a poco, l’impazienza del tempo dell’uomo viene modellata sulla makrothymìa del tempo di Dio. La preghiera opera questa lenta trasformazione: non da’ risposte immediate o soluzioni di vario tipo applicabili alla storia umana. Semplicemente crea uno spazio di attesa che, inevitabilmente, è spazio di conversione alla logica di Dio.

La preghiera, come luogo di incontro tra la nostra pazienza e la pazienza di Dio, allarga il nostro sguardo esistenziale per proiettarlo sul comportamento di Dio, in cui è coinvolto anche il senso della storia. Dio ha pazienza: è questo la spazio che Dio offre per la salvezza dell’uomo. Ma è una pazienza che educa «coloro che gridano giorno e notte» ad una radicale fiducia, ad un’attesa che nasce dalla certezza dell’intervento di Dio, a conformare il tempo dell’uomo sul tempo di Dio.

La certezza dell’intervento di Dio si colloca su altri ritmi di tempo e la sua pazienza guarda alle profondità del cuore dell’uomo (cfr. 2Pt 3,9), non soltanto ai risultati e agli effetti riscontrabili nella storia. Questo, di conseguenza, non toglie nulla all’incertezza del momento in cui sceglie di esaudire la preghiera. Qui si inserisce il profondo legame della preghiera con la fede, legame suggerito anche dalla domanda di Gesù che chiude la parabola di Luca: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (v. 8). In questo tempo di attesa, il credente è chiamato a vigilare, a tener fisso lo sguardo su ciò che è realmente importante nel tempo della storia: la propria fede, custodita dalla preghiera. Il vero problema è, per il credente, vivere nella fedeltà dell’attesa, condizione per poter perseverare nella preghiera. Ma, d’altra parte, proprio la preghiera mantiene il credente nella fede, attento al futuro di Dio. «Di fronte all’apparente ‘assenza’ di Dio – sottolinea B. Maggioni – l’uomo può ricorrere solo alla preghiera, senza pretendere di sostituirsi a Dio. Il regno è di Dio non dell’ uomo, e anche i tempi sono di Dio Quando verrà il Figlio dell’uomo, troverà gli uomini intenti a pregare o piuttosto affannati a costruirsi da se il Regno?».

Monastero di Dumenza