Chi può dirsi cattolico oggi?

Nel mezzo di questa assolata estate Michela Murgia ci ha lasciati, e sappiamo bene tutti come non sia stata una morte indolore. Molte voci si sono alzate, in Italia, a commento di un evento che, a mio parere dovrebbe spingere un credente al silenzio della riflessione e della preghiera. Perciò non mi aggiungerò a questo coro. Ma credo sia sensato tentare una serena riflessione, non nel merito, ma sul delicato punto che, secondo me, sta sotto a tutto questo dibattito pubblico: cosa vuol dire essere cattolici? Chi appartiene alla Chiesa cattolica?

Intanto per essere cattolici bisogna, prima, essere cristiani. Essere persone, cioè, che hanno sperimentato, in qualche modo, la presenza di Cristo risorto nella loro esistenza. E, a seguito di ciò, hanno deciso di voler coltivare questa relazione effettiva con Lui. Relazione che si sostanzia nel sentirsi amati gratuitamente da Dio, pur nel nostro essere peccatori e nel cercare, nello scorrere del tempo, di stare dietro a questo amore infinito, fino a lasciarci trasformare da Lui in Santi.

Mi rendo conto di dire cose ovvie, ma molte delle dichiarazioni che da più parti abbiamo letto e sentito in questi giorni sembrano ignorare questo “fondamentale” della fede. Perché tutto nasce da lì, pure l’essere Chiesa e anche l’essere Chiesa cattolica. L’esperienza di tale relazione, infatti, spinge alla condivisione con gli altri credenti del proprio vissuto, proprio perché essa produce una spinta ad amare universalmente, a ricambiare in modo cattolico, cioè secondo totalità e universalità, questo amore. Perciò è la relazione con Cristo che genera la Chiesa, non viceversa.

“Quel che era dal principio, quel che abbiamo udito, quel che abbiamo visto con i nostri occhi, quel che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato della parola della vita (…), noi lo annunciamo anche a voi, perché voi pure siate in comunione con noi; e la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo”. L’incipit della prima lettera di Giovanni è chiarissimo. E richiama la dinamica di At 2, 48: “il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati”. In altre parole, il rimando all’amore di Cristo, come al fondamento della propria fede, non può mai essere saltato nella Chiesa, pena lo svuotamento dell’essere Chiesa.

Quando questa dinamica si concretizza nell’accesso al battesimo, la fede viene sancita e con certezza sappiamo che Cristo tocca nel profondo quella persona e la rende capace di rispondere pienamente all’amore di Dio. Ma la fede, nel suo nucleo più profondo, deve già essere presente nel battezzato, altrimenti nemmeno si chiede il battesimo alla Chiesa. “La preparazione dell’uomo ad accogliere la grazia è già un’opera della grazia. (…) Dio porta a compimento in noi quello che ha incominciato”. (CCC 2001) La Chiesa questo lo sa benissimo. “La salvezza viene solo da Dio; (…) Noi crediamo la Chiesa come Madre della nostra nuova nascita, e non nella Chiesa come se essa fosse l’autrice della nostra salvezza” (CCC 169).

Perciò nel vivere la Chiesa non si può mai dimenticare che per primo è la fede che fonda la Chiesa, e solo dopo la Chiesa genera la fede. Allora, se l’adesione alla Chiesa proviene dalla fede e questa è un atto personale, che si sviluppa nel tempo, difficilmente possiamo definire i limiti della Chiesa in modo netto e oggettivo, tanto da poter giudicare con certezza se qualcuno è dentro o fuori la Chiesa cattolica. E ciò vale sia per chi dice che qualcuno è fuori, sia per chi sostiene che tutti siamo dentro la Chiesa.

Nel primo caso ci si appella all’oggettività del battesimo e della adesione esplicita o meno alle verità di fede, per decidere se quella persona sia o no cattolica, dimenticandosi che nessuno può davvero giudicare se e come lei stia vivendo in risposta all’amore di Dio o si sia chiusa ad esso. Perché l’adesione personale a Cristo è sempre un gradualità, mai un tutto o niente. E l’adesione totale ci sarà solo nel regno di Dio, quando saremo santi. Il cattolico non ipotizza che la verità sia oggettiva e che l’accesso ad essa sia altrettanto oggettivo.

Nel secondo caso ci si appella alla soggettività del desiderio di amare, che in qualche modo quella persona mostra, ipotizzando che questo sia sufficiente ad essere di Cristo, dimenticandosi che l’amore non si autogiustifica, perché nella visione cattolica, il male è proprio un amore impazzito, amando un bene minore al posto di un bene maggiore. Chi è di Gesù Cristo non solo tende ad amare, ma ad amare sempre più in modo ordinato, riconoscendo la verità e il valore delle cose e delle persone e a Dio il primato. Il cattolico non ipotizza che la verità sia soggettiva e che l’accesso ad essa sia altrettanto soggettivo.

Chi si erge a paladino dell’oggettività del confine immagina che la verità proclamata da essa sia già tutta definita e immutabile, perciò utilizzabile per il giudizio su chi è o no nella Chiesa. Ma forse dovrebbe ricordare ciò che la Chiesa stessa afferma: “Il pieno diritto di giudicare definitivamente le opere e i cuori degli uomini appartiene a Cristo in quanto Redentore del mondo. (…) Ora, il Figlio non è venuto per giudicare, ma per salvare e per donare la vita che è in lui. È per il rifiuto della grazia nella vita presente che ognuno si giudica già da se stesso, riceve secondo le sue opere e può anche condannarsi per l’eternità rifiutando lo Spirito d’amore”. (CCC 679)

E pure dovrebbe ricordare che “prima della (ultima) venuta di Cristo, la Chiesa deve passare attraverso una prova finale che scuoterà la fede di molti credenti”. (CCC 675) “La Chiesa non entrerà nella gloria del Regno che attraverso quest’ultima pasqua, nella quale seguirà il suo Signore nella sua morte e risurrezione”. (CCC 677) Cioè la Chiesa deve morire come istituzione umana e rinascere come regno di Dio, perciò, nella sua dimensione istituzionale non sostituiamola a Dio stesso.

Chi si erge a difensore della soggettività nell’essere cattolico, dovrebbe ricordare che per la Chiesa “la fede è innanzi tutto una adesione personale dell’uomo a Dio; al tempo stesso ed inseparabilmente, è l’assenso libero a tutta la verità che Dio ha rivelato”. (CCC 150) e ancora: “una conoscenza più penetrante richiederà a sua volta una fede più grande, sempre più ardente d’amore. La grazia della fede apre gli occhi della mente per una intelligenza viva dei contenuti della Rivelazione, cioè dell’insieme del disegno di Dio e dei misteri della fede, dell’intima connessione che li lega tra loro e con Cristo, centro del mistero rivelato. (CCC 158). Cioè più si coltiva la relazione di amore a Cristo, più la comprensione della gerarchia e dell’ordine delle sue verità appare evidente e più ci si avvicina al centro del mistero.

Essere cattolici perciò richiede di ipotizzare che la verità sia oggettiva, ma l’accesso ad essa sia soggettivo. Perché la verità è una relazione di amore.

Gilberto Borghi