Pentecoste. Chiesa opaca o trasparente al dono dello Spirito?

il mistero di una chiesa peccatrice per condizione ma santa per vocazione!

Opacità o trasparenza?

A quale dei due poli debba correre per anelito l’anima di una chiesa, non è chi non veda. Ovvio, direbbe ciascuno di noi. E infatti ne andrebbe, se così non fosse, della stessa natura della chiesa, della sua missione, della ragione stessa del suo esistere. In cui è iscritto l’anelito a far trasparire un Altro, il suo Signore. Vocazione di trasparenza, quella della chiesa. Vocazione a togliere veli, “rivelazione”. Che suona il contrario dell’ottenebramento, che avrebbe come effetto immediato quello di coprire di veli proprio quel Signore che una chiesa è chiamata a rivelare, a svelare, a far trasparire. Trasparenza. Finestre di una chiesa. Opacizzate o illimpidite?

Porto negli occhi
tre esili finestre
sorelle del silenzio
nel grembo di un’abside,
fessure dell’infinito:
spiano nella notte
l’intenerirsi del cielo,
sognano
ad occhi socchiusi
il ritorno del Signore.

Ma se le finestre di una chiesa perdono di limpidezza, ingrigite e ingiallite dal tempo, invano dal di dentro rimarremmo, fiato sospeso, in attesa di grido all’alba per avvistamento della venuta del Signore. Dai vetri sporchi entra a rilento pure il sole. Sembra perdere colore e, per chi guarda da dentro, è come se le cose fossero annebbiate, ingrigite, confuse in immagine.

Oggi sentiamo battere, dentro le vene della società e della chiesa, un bisogno di limpidezza. Batte un bisogno di trasparenza ai vetri dell’anima, ma anche ai vetri della chiesa. Se come chiesa siamo trasparenti, quando usciamo, ed alla vita usciamo ogni mattina, portiamo trasparenza, se siamo limpidi portiamo limpidezza. Ma se siamo ambigui portiamo ambiguità, se siamo corrotti, quando usciamo, ed usciamo ogni mattina alla vita, portiamo corruttibilità. Se siamo opachi esportiamo opacità.

“Opachi o trasparenti” indica innanzitutto un modo d’essere, una vita che lascia o non lascia filtrare luce. Ritorna al cuore l’invito di Gesù: “Siate sale della terra, siate luce del mondo”, invocava per i suoi trasparenza. L’immagine della luce, certo, dice visibilità: la lampada non la nascondete sotto il moggio. E dunque non rintanatevi, non nascondetevi. Ma la visibilità – sarebbe grave cadere nell’equivoco – non è esibizione, è lontanissima dall’esibizione, dall’ossessione delle strategie, le più sofisticate, per attirare attenzione, per farsi vedere. Vi immaginate la luce che pensa: “devo rendermi visibile”? Se c’è, è visibile. Trasparenza dice visibilità per un altro.

Non si tratta dunque di dire parole: non siamo luce con le nostre parole, o non, prima di tutto, con le nostre parole. Tra l’altro questa, delle dichiarazioni, è diventata ai nostri giorni la via meno feconda, meno fruttuosa per la testimonianza . Lo ricorda Enzo Bianchi nel suo libro “Per un’etica condivisa” si chiede: “E’ ancora possibile rendere conto di un legame vitale con una presenza invisibile che i credenti chiamano Dio? Certo, per fare questo appare ormai infruttuosa se non addirittura impraticabile la via della esposizione della dottrina e della dimostrazione dei dogmi, ma del resto ci si può chiedere quando mai la trasmissione della fede di generazione in generazione è passata solo attraverso l’esposizione di elaborazioni teologiche… la conoscenza personale del Signore Gesù, l’adesione nella libertà e per amore alla sua vita, prima ancora che al suo insegnamento, è sempre passata da persona a persona, da genitori a figli nonostante ogni sorta di infedeltà e contraddizioni, attraverso l’autenticità e l’intensità di una vita…”.

La luce dunque non è, prima di tutto, la luce delle dichiarazioni, dei documenti, delle prediche. “Vedano le vostre opere buone”. È con la vostra vita che diventate trasparenza del vangelo. “Vedano le vostre opere belle” – “ta kala erga” in greco -. Le opere buone, dunque, o meglio le “opere belle”, le opere che fanno una chiesa trasparente, sono quelle che hanno il profumo delle beatitudini, hanno il sapore della gratuità, nascono dal cuore, nascono dalla purezza delle intenzioni, nascono dall’onestà della vita, nascono dalla mitezza, dalla compassione, dall’amore per la giustizia… Che la vostra vita – sembra dire l’evangelista – rifletta la bellezza, la luce della vita di Gesù.

Siate scintille di Dio. Come suggerisce un midrasch della tradizione rabbinica, che tenta di spiegare perché Dio ha creato la luce il primo giorno e il sole, la luna, le stelle solo il quarto giorno. E risponde: La luce del primo giorno è la luce di Dio, troppo potente perché l’uomo appena creato potesse sopportarlo. Allora Dio disse: Gli farò una luce adeguata e gli restituirò la luce del primo giorno quando sarà abbastanza maturo da comprenderla e apprezzarla. Quindi ritirò la luce del primo giorno e la mise in un contenitore. Ma il contenitore era troppo piccolo per una luce così grande: scoppiò e la luce ricadde in una miriade di frammenti sulla terra. E ogni frammento era una scintilla. Ebbene – sorrise il Signore – ogni volta che un uomo sulla terra compirà una buona azione, riporterà al cielo una scintilla del primo giorno.

L’invito di Gesù: “risplenda la vostra luce davanti agli uomini” è stato e viene ancora oggi a volte raccolto, per grave fraintendimento, come un invito ad esibire: invito ad esibire quanto si è fatto, a dare spettacolo di se stessi e della fede. Non si tratta di “dimostrare”, ma di lasciar trasparire ciò che per grazia, per grazia e per potenza del vangelo, ci abita. Bisogna ritornare alla metafora della luce, che è silenziosa, che non esibisce, non esibisce se stessa, ma fa affiorare i colori dell’altro, delle cose, della vita. Se c’è.

Con tristezza ci capita di assistere a stagioni ecclesiali in cui l’anelito segreto, inconfessato, della chiesa sembra essere quello di dare pubblicità a se stessa, in una spasmodica ossessione di contare nella società civile, nella ricerca puntuale di strategie che ottengano plausi e consensi. L’esito è l’impallidimento del volto, chiesa opaca, per adeguamento a una sapienza puramente mondana. Esito la chiesa dell’ovvietà, che non fa che riproporre un modello già pesantemente presente nella società, non più buona notizia, ma sale senza sapore, senza il sapore del vangelo. Destinata, al dire del vangelo, ad essere gettata via e calpestata dagli uomini. Sale dell’inutilità, un perditempo raccattarlo. Matteo sta parlando ai discepoli, sta parlando alla sua chiesa, alle chiese di tutti i tempi, e sembra mettere in guardia: si può essere chiesa e non dare sapore alla vita, essere sale che perde il sapore. Ed essere gettati via.

Mi sembra di poter dire che scarsamente nei nostri ambienti si fa opera di vero discernimento: per lo più si fa lamento sul fatto che i credenti siano emarginati, raramente, quasi mai, ci si chiede se una delle cause non potrebbe essere questa: che abbiamo perso il sapore. Diventati insignificanti! Ci si lamenta di un mondo che sembra essere totalmente incurante di noi. Poche volte, devo confessarlo, ho trovato un sincero desidero di chiedersi se per caso l’indifferenza non sia conseguenza di un incontro pressoché quotidiano con uomini di chiesa, abili nelle proclamazioni, ma perfettamente allineati ai criteri mondani nella vita di tutti i giorni, arresi, senza brivido di profezia, arresi alla più pallida ovvietà.

Giorni fa il “postino” di una fraternità del Brasile che si confronta in modo netto con il vangelo evocava parole di Paolo VI nell’ Udienza Generale del mercoledì 2 Ottobre 1974, parole forti nel sottolineare l’importanza di una vita trasparente per l’animo delle donne e degli uomini del nostro tempo, in cerca di “discepoli del vangelo trasparenti a Dio e agli uomini”: ” Occorrono oggi più che mai dei testimoni dell’invisibile. Gli uomini di questo tempo sono degli esseri fragili che conoscono facilmente l’insicurezza, la paura, l’angoscia. Tanti si chiedono se sono accettati da coloro che li circondano. I nostri fratelli umani hanno bisogno di incontrare altri fratelli che irradino la serenità, la gioia, la speranza, la carità, malgrado le prove e le contraddizioni che toccano anche loro. Essere il testimone della potenza di Dio che opera nella sorprendente e sempre nuova fragilità umana, non vuol dire alienare l’uomo, ma proporgli dei percorsi di libertà.

Le nuove generazioni hanno particolarmente sete di sincerità, di verità, di autenticità. Esse hanno orrore del fariseismo in tutte le sue forme. Si capisce perciò come esse si attacchino alla testimonianza di esistenze pienamente impegnate al servizio di Cristo. Percorrono tutti gli angoli della Terra per trovare dei discepoli del Vangelo, trasparenti a Dio e agli uomini, che rimangono giovani della giovinezza della grazia di Dio. Le nuove generazioni vorrebbero incontrare più testimoni dell’Assoluto. Il mondo attende il passaggio dei santi”. La trasparenza ha un fascino: “percorrono tutti gli angoli della Terra per trovare…”.

La trasparenza non solo ha un fascino, ma non teme l’immediatezza. E’ l’opacità che la teme e mette pervicacemente in atto strategie di distanza. Ciò che è nella trasparenza della luce lo puoi mostrare dai tetti, lo puoi raccontare sulle piazze. E’ l’opacità che va tenuta nascosta nelle stanze segrete. Non sarà – me lo chiedo – che una certa difficoltà che permane nel mondo ecclesiastico a stare con tutti, a camminare con tutti, al fianco di chiunque, non nasconda un timore, il timore che, cancellate le distanze, possiamo per sventura apparire agli occhi degli altri per quello che in realtà siamo? Se cammini con la gente, tutti potranno sorprendere quello che abita i tuoi occhi e il tuo cuore, siamo nella legge della trasparenza, se te ne stai barricato o parli dai palchi puoi anche far credere che siano abitati persino gli occhi vuoti, perdutamente vuoti. Non dovremmo in un sussulto di sincerità e franchezza, di parresia evangelica, chiederci se sono nel segno della trasparenza tutti gli orpelli di nomi e di abiti, di copricapi e di insegne, che accompagnano persistentemente, duri a morire, il mondo ecclesiastico? Le scenografie religiose sono veramente segni, epifania dell’ “invisibile”, o sono spettacolarizzazione prolungamento di ciò che è già purtroppo ampiamente prepotentemente ossessivamente “visibile”?

Lo spettacolo è artificio, la trasparenza è immediatezza. Togliere dunque le distanze e camminare nella trasparenza. Anche, ed è doveroso dirlo,- nella trasparenza della fragilità. L’esperienza ci insegna che spesso a nascondersi nell’opacità è chi si arrovella nell’ossessione di apparire perfetto, preoccupato di velare le proprie fragilità. Si finisce a vivere di maschere nel tentativo di nascondere agli occhi degli altri la propria debolezza. Al contrario una fragilità accolta e riconosciuta ha come effetto tenero e buono quello di creare vicinanza in umanità, aiuto vicendevole nel sostegno. Basterebbe ricordare l’emozione suscitata nel mondo, al di là degli ambienti strettamente ecclesiali, da Francesco, il vescovo di Roma quando, di ritorno dal Brasile dalle giornate per la gioventù del mondo, rispondendo a una domanda rivoltagli in aereo da un giornalista, illuminandosi negli occhi uscì in una espressione, fulminante nella sua semplicità, che nel giro di un grumo di minuti fece il giro del mondo: “Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà chi sono io per giudicarla?”.

Trasparente nel confessare un limite, una fragilità: “Chi sono io per giudicare?”. Dopo secoli di pesantezza di giudizi, evocando una parola disarmante del vangelo, un papa improvvisamente alleggerisce l’immagine di una chiesa allontanandola dalle secche della facili condanne e fa trasparire vangelo. L’evangelo, la notizia buona della misericordia. Ritorna a pulsare nella trasparenza, davanti a tutti. Il cuore del vangelo. Scrostare l’affresco sembra diventare operazione sempre più urgente, non rimandabile, ne va della possibilità di un annuncio ancora credibile dell’evangelo. Scrostare dalla pesantezza di un atteggiamento giudicante, ma ancora, perché il volto della chiesa sia trasparente, scrostarla dalla pesantezza della confidenza nei beni e negli strumenti mondani, allontanandoci senza riserve dall’inganno di pensare che si dia fulgore al volto di una chiesa aggiungendo cose e non invece alleggerendo.

E’ la povertà di una chiesa, come ripete senza cedimenti e stanchezze Papa Francesco, che fa vivere oggi sulla terra il vangelo. E’ la povertà che scrostando ci rende trasparenti, trasparenti del vangelo. La povertà che fa trasparire l’essenziale su cui veramente, e non a parole batte il cuore di una chiesa. Come ebbe a dire Pietro, in uno dei primi giorni della chiesa, quando alla porta Bella del tempio di Gerusalemme, allo storpio che aveva alzato a lui gli occhi implorando un’elemosina disse: “Non possiedo né oro né argento, ma quello ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo il Nazzareno, alzati e cammina”.

Allora bastava l’ombra leggera di Pietro a guarire. Oggi soffriamo la distanza dalle parole e dall’ombra di Pietro. Ricordo che anni fa, vistando in Turchia quella che una tradizione chiama “la grotta di Pietro”, mi percorse la schiena un brivido mai dimenticato:

Grotta di Pietro,
chiesa dei sandali
senza bastone
né due tuniche. Nuda fede,
la tua, Pietro, 
ombra che guarisce.
Noi,
Chiesa delle due tuniche,
lucentezza senza guarigione.

E non si tratta già solamente di scrostarci dalle troppe cose che fanno ingombro, ma forse ancor più urgentemente dalle alleanze con il potere che hanno reso opaco negli anni il volto della chiesa, al punto da depredarla, soprattutto agli occhi dei giovani, di ogni fiducia e credibilità. Ricordo quanta amarezza qualche anno fa fosse rimasta impigliata negli occhi di un papà e una mamma, che mi raccontavano dei loro due figli che da qualche tempo avevano deciso di non frequentare più la chiesa. Mi dicevano di essersi sentiti percorrere dai loro sguardi inquietanti allorché una sera un telegiornale diede notizia di un cardinale presente alla festa di uomini di potere inqualificabili su un terrazzo della città di Roma. Fotogramma di innumerevoli tristi disgustose connivenze. Volto opaco di una chiesa, affresco da scrostare. Volto da scrostare da appesantimenti, troppi appesantimenti.

Oso dire, ponendo fine a queste rapsodiche note, che appesantimento non indifferente, che tende a opacizzare ancora oggi purtroppo il volto di una chiesa è il prevalere spesso dell’aspetto istituzionale. Non è forse vero che nel porsi e nell’agire della chiesa in evidenza, più che la il suo volto di comunità di credenti, è il volto dell’istituzione? L’aspetto burocratico l’ha resa pesante e obesa, togliendole ogni leggerezza evangelica. Ce ne ha messo in guardia con uno dei suoi richiami concreti e puntali Papa Francesco il 25 maggio, quando, citando l’episodio del cieco di Gerico che venne duramente rimproverato dai discepoli perché gridava, parlò del pericolo di una chiesa dei protocolli, della dogana.

Vorrei lasciare alle parole di papa Francesco – anche queste segno di trasparenza – la vivacità e il colore che le contraddistinguono: Il Vangelo dice che volevano che non gridasse, volevano che non gridasse e lui gridava di più, perché? Perché aveva fede in Gesù! Lo Spirito Santo aveva messo la fede nel suo cuore. E loro dicevano: ‘No, non si può! Al Signore non si grida. Il protocollo non lo permette. E’ la seconda Persona della Trinità! Guarda cosa fai…’ come se dicessero quello, no?. :: Pensiamo ai cristiani buoni, con buona volontà; pensiamo al segretario della parrocchia, una segretaria della parrocchia… ‘Buonasera, buongiorno, noi due – fidanzato e fidanzata – vogliamo sposarci’. E invece di dire: ‘Ma che bello!’. Dicono: ‘Ah, benissimo, accomodatevi. Se voi volete la Messa, costa tanto…’. Questi, invece di ricevere una accoglienza buona – ‘E’ cosa buona sposarsi!’ – ricevono questo: ‘Avete il certificato di Battesimo, tutto a posto…’. E trovano una porta chiusa.

Quando questo cristiano e questa cristiana ha la possibilità di aprire una porta, ringraziando Dio per questo fatto di un nuovo matrimonio… Siamo tante volte controllori della fede, invece di diventare facilitatori della fede della gente E’ una tentazione che c’è da sempre – spiega il Papa – e racconta un altro episodio: Pensate a una ragazza madre, che va in chiesa, in parrocchia e al segretario: ‘Voglio battezzare il bambino’. E poi questo cristiano, questa cristiana le dice: ‘No, tu non puoi perché non sei sposata!’. Ma guardi, che questa ragazza che ha avuto il coraggio di portare avanti la sua gravidanza e non rinviare suo figlio al mittente, cosa trova? Una porta chiusa! Questo non è un buon zelo! Allontana dal Signore! Non apre le porte! E così quando noi siamo su questa strada, in questo atteggiamento, noi non facciamo bene alle persone, alla gente, al Popolo di Dio. Ma Gesù ha istituito sette Sacramenti e noi con questo atteggiamento istituiamo l’ottavo: il sacramento della dogana pastorale!”. Chiesa opaca, la chiesa dei protocolli e delle dogane. Chiesa trasparente la chiesa che scorge il passaggio di Dio e lo racconta.

Non ci rimane che pregare con Madeleine Delbrel che qualche scintilla ci raggiunga:Poiché le tue parole, mio Dio,
non sono fatte per rimanere inerti nei nostri libri,
ma per possederci
e percorrere il mondo in noi,
permetti che
da quel fuoco di gioia da te acceso, un tempo, su una montagna
e da quella lezione di felicità,
qualche scintilla ci raggiunga e ci possegga,
ci investa e ci pervada

Angelo Casati