L’avvento nella Chiesa: nostalgia del passato e paura del futuro?

Il tempo d’avvento in corso ci dà l’opportunità di far sedimentare nel cuore il grande monito di Gesù: vegliare perché “non sapete quando è il momento” (Mc 13,33). Nel testo greco, la medesima espressione viene resa con un lessico che risulta importante in ambito biblico: oīda (conoscere) e kairós (momento fissato). Nella mens ebraica, il conoscere non indica solo un atto della ragione ma può esprimere l’unione nell’atto sessuale e, dunque, una manifestazione di amore; invece, il kairós indica il tempo visitato dalla presenza di Dio, il compimento del mondo.

A partire da questi significati, penso che la vera vigilanza si esplica in quei gesti di tenerezza, d’amore che ogni uomo è chiamato a donare entro cui è possibile scorgere i segni della presenza del Signore. Da questa affermazione ne scaturisce la domanda: qual è lo spazio in cui siamo chiamati a vegliare e ad essere segno della visita di Dio per il mondo? Sono i luoghi in cui oggi abita l’umano.

Il Sinodo indetto da Papa Francesco aveva come intenzione originaria il desiderio di raggiungere l’uomo nell’oggi della storia; tuttavia, pare che nella Chiesa continui a persistere una certa paura che rischia di bloccare i cristiani all’interno delle aule liturgiche e delle sagrestie, un ambiente ovattato e dall’odore chiuso, il quale fa viaggiare i cristiani su un binario opposto rispetto al mondo.

Si continua ancora a rivendicare ruoli, a parlare di piramide, a vivere di abbagli e con l’illusione che il mondo penda dalle nostre labbra. Tale illusione, non ha fatto altro che togliere o affievolire la vitalità nella comunità cristiana (almeno quella Europea), spingendo gli uomini ad allontanarsi dalla Chiesa ma, forse, non da Dio.

Per molto tempo – probabilmente per i più nostalgici continua ad esser così – si è data la colpa al mondo, alle ideologie del passato e a quei movimenti che hanno rivoluzionato la società; tuttavia, poco spesso si è fatto un esame di coscienza che abbia permesso a noi cristiani di battere il proprio mea culpa perché, forse (ma solo forse), continuiamo a comunicare il vangelo con le categorie del passato che ci fanno rimanere bloccati nel tempo dei grandi pronunciamenti magisteriali, delle grandi condanne e delle liturgie cariche di pizzi e merletti ma povere di umanità.

La crisi colpisce una gerarchia che vorrebbe ancora far valere la propria voce rivendicando il proprio ruolo all’interno della comunità cristiana e alla quale bisogna obbedienza come un soldato che, ciecamente dovrebbe eseguire degli ordini; ciò fa credere che l’autorevolezza della parola scaturisca da un modo di vivere la paternità ferma ancora al modello del patriarcato, un modello culturale che, nonostante ultimamente sia stato dai più riesumato dalla tomba, è ormai finito.

Per quanto si continui a parlare della figura del padre in una visione patriarcale, con buona pace di tanti vescovi e preti, si deve affermare con Massimo Cacciari l’uccisione del padre, indicando in questa espressione che l’immagine della paternità legata alle generazioni passate è ormai finita. I rapporti paterni, ed evidentemente anche quelli materni, oggi vanno visti nell’ottica dell’accompagnamento, dell’ascolto reciproco e dell’accoglienza.

Il mondo non è un nemico ma il luogo in cui Dio ci ha posti e per il quale ha inviato Suo Figlio. È possibile continuare a parlare di piramide e di gerarchia in un tempo in cui in Italia e in Europa l’esperienza gerarchica e monarchica, per come è stata vissuta nel passato, non esiste più?

La Chiesa per vocazione ha il compito di rendere presente il kairós all’uomo di oggi e, più che mai, l’uomo ha bisogno di vivere esperienze che abbiano il sapore dell’essenzialità, della semplicità, della bellezza, dell’ascolto reciproco che, racchiuse in una sola parola, sono l’esperienza dell’amore.

Qualora si voglia continuare a rimanere bloccati in un mondo ormai scomparso, la sposa di Cristo rischia di fallire la propria missione. Affinché ciò non accada, bisogna avere il coraggio di andare fuori, abitare meno le aule liturgiche e vivere nelle nuove agorà: case, bar, pub e locali in cui fare un’esperienza umana che abbia il tono della familiarità e il sapore della vita.

Samuel La Delfa