Che cosa significa affermare “la messa non è nostra”? Con questa espressione si suole indicare, correttamente, una “perdita di potere” sull’azione rituale. In questo, come è evidente, vi è molto di buono. È giusto, infatti, che nell’esperienza rituale della fede ci troviamo in una condizione di “prendere l’iniziativa di perdere l’iniziativa”.
Come atto di “riconoscimento”, l’atto rituale non è mai un atto assolutamente creativo. E tuttavia, per essere atto rituale, la messa deve anche restare un atto relativamente creativo. Per questo motivo, nella affermazione “la messa non è nostra”, accanto al buon fondamento di un assunto ragionevole e dovuto, può insinuarsi una piccola e grande distorsione. Vediamo perché.
L’azione rituale dell’eucaristia è un atto di Cristo e della Chiesa. Quindi, allo stesso tempo, “non è” nostra ed “è” nostra. Se con nostra diciamo “della Chiesa” e se non identifichiamo la Chiesa in un “ente” affidato soltanto alla gestione gerarchica, ma capillarmente presente nel corpo ecclesiale, dotato dei munera regali, profetici e sacerdotali, dobbiamo ammettere che la messa è sempre anche “nostra”.
Questa titolarità “comune” dell’azione, che permette di pensare Dio e il suo popolo, Cristo e la sua Chiesa, come soggetti del rito, induce a rileggere con un occhio meno drastico tutti i codici espressivi della celebrazione. In ogni linguaggio della messa non agisce né solo Dio né solo il popolo, né solo Cristo né solo la Chiesa. Ma sempre, allo stesso tempo, gli uni e gli altri, insieme, concordemente, in una relazione qualificante.
La Riforma liturgica ha restituito anche le parole a questa logica complessa. Un repertorio, che è nato largamente in lingua latina, ora viene celebrato nelle lingue parlate, che non sono semplicemente la traduzione del latino, ma anche la valorizzazione di ciò che il latino, come ogni altra lingua di Babele, non riesce a dire. Dire che “la messa non è nostra” non significa pensare che possiamo solo tradurla letteralmente dal latino. Questa sarebbe, allo stesso tempo, un’ingenuità e un abuso.
Ma non basta. Se il rito è composto di testi autorevoli, e che ordinariamente costituiscono la base invariabile del testo parlato, il rapporto con questi testi non può essere solo di ripetizione. Essendo nati da “plurime espressioni” della stessa fede, non escludono affatto che, alle debite condizioni, non si possano considerare come esclusivi. Una Chiesa che, proprio nel suo atto più decisivo, fosse solo capace di “riprodurre testi classici” e incapace di improvvisare con fedeltà e con gusto, sarebbe una Chiesa in profonda crisi.
Per questo il principio “la messa non è nostra” non può essere utilizzato come principio dirimente. Non solo perché la Chiesa non può negare di avere avuto e di avere ancora un’“autorità” sulla messa. Non solo nello stabilire, ad es., che vi sia una, tre, cinque o dieci preghiere eucaristiche, ma anche nel riconoscere che l’assemblea che si raduna fa parte del mistero che viene celebrato. Nella misura in cui questo assunto diventa un’evidenza, allora sarà sempre possibile riferirsi al principio, ma con il dovuto discernimento.
Non è raro che quanto più drastica risuoni la affermazione di “mancanza di potere”, tanto più forte possa essere il desiderio di conservarlo tutto senza alcuna alterazione.
Una delle risorse più utilizzate, negli ultimi 40 anni, per mettere a tacere ogni legittima domanda di riforma è stata, precisamente, la stessa: la Chiesa che non ha voluto mutare un solo iota della propria disciplina si è spesso rifugiata nell’argomento (sofistico) dell’assenza di potere.
Se il Concilio avesse fatto così, non avremmo elaborato né il concetto di partecipazione attiva né il processo di riforma che ci ha condotto ai nuovi riti. Un dispositivo di blocco che voglia escludere ogni creatività dalla messa è tanto pericoloso quanto un approccio arbitrario e incontrollato.
Insomma, affermare che “la messa non è nostra”, pur con tutta la sua parziale ragionevolezza, rischia di suonare singolarmente coerente con le forme più intolleranti di tradizionalismo ecclesiale.
Nessun intervento sul testo della messa è di per sé giustificato, salvo che non vi sia un cammino comunitario che elabora forme rispettose di approfondimento, di riflessione, di articolazione e di arricchimento della fede ecclesiale.
Poiché questo non è ordinario, ma non può essere escluso, il principio affermato è un principio relativo, ma non un principio assoluto. Il che equivale a dire che richiamarlo significa additare un uso che può anche diventare un abuso.
- Dal blog dell’autore Come se non.
Andrea Grillo