L’invidia: il veleno che deturpa le nostre relazioni

Ci sono tre specie di discepoli: quelli che insegnano lo Zen agli altri, quelli che hanno cura dei templi e dei santuari, e poi ci sono i sacchi di riso e gli attaccapanni.
101 storie Zen, n. 87

L’invidia consiste nel provare felicità per il dolore dell’altro e dolore per la sua felicità. È un uso perverso degli occhi (in-videre: guardar male): gli invidiosi si riconoscono perché non riescono a guardarti negli occhi, non sanno reggere a lungo lo sguardo. Dante colloca gli invidiosi nel Purgatorio, forse perché hanno già scontato in terra parte della loro penitenza, e ce li mostra con gli occhi cuciti: «ché a tutti un fil di ferro i cigli fóra» (Pg XIII,70).

L’invidia è la radice del fratricidio di Caino, del conflitto tra Giuseppe e i suoi fratelli, della disobbedienza di Adamo ed Eva che credono al ragionamento invidioso del serpente. L’invidia non scatta verso “superiori” o “inferiori” ma solo verso i pari: il professore non invidia un giovane allievo, e se lo invidia (fatto molto brutto) è segno che inizia a sentirlo e temerlo come un pari (più bravo). Caino invidia il fratello Abele, non Dio. L’invidia ha poi bisogno della convinzione che i talenti dell’invidiato siano reali. Se crediamo che il concorrente stia facendo carriera per talenti finti o per imbrogli non scatta l’invidia, ma altri sentimenti (la rabbia, lo sdegno); affinché attecchisca l’albero cattivo dell’invidia, dell’odio invidioso, dobbiamo credere che l’altro sia veramente più bravo di noi e che la sua bravura ci procurerà effetti dannosi – nei casi più gravi l’invidia si nutre soltanto del talento dell’altro, anche se da quel talento non deriva alcun danno diretto per noi. L’invidia ha come sorella la gelosia, ma mentre l’invidia è binaria – A invidia B –, la gelosia ha una struttura ternaria: A è geloso di B perché C può portarglielo via (non si è simultaneamente gelosi e invidiosi verso la stessa persona).

L’invidia fa poi scattare spirali di reciprocità negativa quando l’invidiato gioisce dell’invidia che provoca: poiché so che tu stai provando invidia per il mio successo, anche io provo un piacere subdolo a raccontarti le mie vittorie (e a tacerti le mie sconfitte). E così si generano buchi neri di mali relazionali, circoli morali viziosi che possono essere spezzati solo da persone anti-invidiose, cioè da chi si rallegra per le mie gioie e soffre per i miei dolori. Gli anti-invidiosi sono un bene preziosissimo nelle comunità, perché assorbono i dolori e amplificano le felicità di tutti. La qualità morale di una comunità dipende decisamente da quante persone anti-invidiosi ha generato e trattenuto, e i circoli viziosi invidiosi sono un indicatore infallibile di declino comunitario, quando torni a casa la sera e non puoi più raccontare le cose belle della giornata perché senti che i tuoi compagni si intristiscono ascoltandoti. E quando non si ha neanche un amico (una moglie, un genitore) anti-invidioso, la vita diventa (quasi) impossibile. La fede è anche il dono della certezza che esista almeno un Amico anti-invidioso – un mondo che cancella Dio dalla terra aumenta l’invidia tra “parificati” perché appiattiti, e poi utilizza l’invidia sociale per aumentare il Pil.

«Daniele era superiore agli altri funzionari e ai sàtrapi, perché possedeva uno spirito straordinario, tanto che il re pensava di metterlo a capo di tutto il suo regno» (Daniele 6,4). Il re Dario, personaggio dalla dubbia storicità, sceglie Daniele come uno dei tre governanti massimi del suo regno, suddiviso in 120 satrapie (province). Daniele, giudeo deportato, si trova ora nella stessa situazione di Giuseppe in Egitto, che fu elevato dal faraone allo status di visir. Anche qui siamo dentro un conflitto politico: «I funzionari e i sàtrapi cercavano di trovare qualche pretesto contro Daniele. Ma non potendo trovare nessun motivo di accusa né colpa, perché egli era fedele e non aveva niente da farsi rimproverare, quegli uomini allora pensarono: “Non possiamo trovare altro pretesto per accusare Daniele, se non nella Legge del suo Dio”» (6,5-6). I colleghi sanno che Daniele è un uomo giusto e leale, e sanno che per queste virtù farà carriera. Se l’invidia è coltivata finisce sempre per generare comportamenti. L’invidioso agisce per eliminare l’invidiato, o per cancellare (con la diffamazione ad esempio) ciò che lo rende migliore. L’invidioso non crede di riuscire a pareggiare l’invidiato usando mezzi leciti (si sente inferiore), da qui le bugie e le manipolazioni.

I colleghi conoscono Daniele, lo hanno studiato, e così hanno individuato il suo unico grande vulnus: la sua fede. L’invidioso prima di agire osserva l’invidiato, ha una sua empatia che usa in modo perverso. E quando l’invidiato non è solo più bravo ma anche più buono, allora il suo punto debole coincidere con la sua bontà. Ed è lì che viene colpito. Sta qui la perversione di questo tipo di invidia – l’invidia del bravo e buono –, perché l’invidioso usa la bontà dell’altro (non invidiata) come arma per uccidere la sua bravura invidiata.
«Perciò quei funzionari e i sàtrapi si radunarono presso il re e gli dissero: “Tutti i funzionari del regno, i governatori, i ministri e i prefetti sono del parere che venga pubblicato un severo decreto del re secondo il quale chiunque onori qualsiasi dio o uomo all’infuori di te, sia gettato nella fossa dei leoni…”. Allora il re Dario ratificò il decreto scritto» (6,7-10). Il piano inizia con una bugia, un elemento costante nelle macchinazioni invidiose – “tutti” i funzionari del regno non potevano essere d’accordo: certamente non lo era Daniele. Poi scopriamo subito un altro ingrediente presente in simili processi, che si attiva quando il piano coinvolge anche il capo: viene usata una fragilità del potente. Gli invidiosi sono ruffiani con i capi, perché sono grandi manipolatori (ogni ruffiano manipola). Qui i due funzionari fanno credere a Dario di essere addirittura un dio in terra. Sanno che è una tentazione invincibile per il re, che infatti firma, catturato dal piano invidioso – il primo a finire nella fossa è proprio Dario.

Eccoci al centro del racconto. Daniele viene a sapere del decreto, ma non modifica il proprio stile di vita: «Daniele, quando venne a sapere del decreto del re, si ritirò in casa. Le finestre della sua stanza si aprivano verso Gerusalemme e tre volte al giorno si metteva in ginocchio a pregare e lodava il suo Dio, come era solito fare anche prima» (6,11). Nel primo capitolo del libro, Daniele era stato molto abile a non cercare il conflitto diretto con Nabucodònosor (per i cibi impuri), mostrando una grande saggezza pratica. Qui si comporta in modo diverso, e non fa nulla per evitare la condanna. Un giovane e un anziano (qui Daniele è un uomo vecchio) hanno diverse idee della prudenza, hanno modi diversi di calcolare i costi e i benefici delle loro azioni, in particolare di quelle da cui dipendono la loro dignità e verità. Daniele non modifica in niente il suo modo di pregare, non chiude neanche le finestre. I suoi colleghi invidiosi avevano ragione, la sua fede era la sua vulnerabilità. L’invidioso non ha come obiettivo soltanto prendere il posto dell’invidiato; prima di questo c’è il piacere maligno di costringerlo a cambiare vita, di condizionargli l’esistenza fino a stravolgerla. Ecco perché la risposta di Daniele ci dice la cosa più importante: la sola cosa buona da fare di fronte agli attacchi degli invidiosi è continuare a svolgere esattamente la vita di sempre.

Ci sono momenti in cui diventa evidente che cambiare vita per paura delle conseguenze degli invidiosi e dei nemici significa perdere l’anima: non perdere la vita significherebbe perderla davvero. In molti conflitti si può e si deve cercare di evitare lo scontro, si possono cercare mediazioni, fare prudentemente uno o due passi indietro per il bene proprio e per quello degli altri. In molti confitti ma… non in tutti, perché in poche circostanze decisive bisogna, semplicemente, continuare la vita di sempre – «Se ti dicessero che tra venti minuti c’è la fine del mondo, cosa faresti?». «Continuerei a giocare a palla» (san Luigi Gonzaga). È la differenza tra “sempre” e “molte volte” dove si gioca la nostra dignità: la qualità etica totale della nostra vita può dipendere da quella sola volta in cui non abbiamo fatto ciò che avevamo fatto molte altre volte, perché abbiamo capito che in quella volta c’era qualcosa di diverso. Daniele poteva iniziare a pregare di nascosto, poteva almeno chiudere le finestre; e invece no: ha continuato la vita di sempre, perché quella era, semplicemente, l’unica vita che poteva fare.

E in questa normalità straordinaria Daniele ci dona una delle pagine bibliche che più svelano la natura civile, laica, politica della preghiera vera. La preghiera è anche un atto sovversivo, un «insorgere per risorgere» (fratelli Rosselli), perché pregare quando qualcuno ci impone di non farlo dice a tutti i potenti che non sono Dio, che sono solo «spaventapasseri in un campo di cocomeri» (Geremia). Il mondo lo hanno cambiato le rivoluzioni e le idee, ma lo hanno cambiato anche le preghiere, quando siamo riusciti a continuare a pregare in pubblico quando la prudenza ci consigliava di chiudere le finestre. Tutte le volte che un potente vorrebbe farci pregare solo a finestre chiuse, negando quindi la dimensione pubblica e politica della fede, gli invidiosi lo hanno già convinto di essere un dio: non è ateo, è idolatra di se stesso.
Daniele viene denunciato dai colleghi (6,12-14). Il re capisce, forse, di essere stato imbrogliato, ma ormai la legge è diventata effettiva e non può essere revocata: «Sappi, o re, che i Medi e i Persiani hanno per legge che qualunque decreto emanato dal re non può essere mutato» (6,16). Gli invidiosi conoscono benissimo le leggi per poterle usare a loro vantaggio, studiano molto, pagano molti avvocati. A questo punto Dario può solo eseguire il suo editto: «Allora il re ordinò che si prendesse Daniele e lo si gettasse nella fossa dei leoni. Il re, rivolto a Daniele, gli disse: “Quel Dio, che tu servi con perseveranza, ti possa salvare!”» (6,17). E così fu. Il giorno dopo, Daniele era ancora vivo: «”Il mio Dio ha mandato il suo angelo che ha chiuso le fauci dei leoni ed essi non mi hanno fatto alcun male” (…) Il re fu pieno di gioia e comandò che Daniele fosse tirato fuori dalla fossa» (6,22-24).

Gli invidiosi di Dante pregano Maria («udia gridar: “Maria, òra per noi”», Pg XIII, 50), l’icona dell’anti-invidia. L’educazione dei figli e delle figlie dovrebbe essere soprattutto un’educazione a non coltivare emozioni invidiose, che inizia nella famiglia e poi continua a scuola. L’invidia si nutre di pulsioni di morte, che finiscono per distruggere gli invidiosi. Non c’è dono più grande che possiamo fare a un bambino di aiutarlo a diventare una persona anti-invidiosa: aumenteremo la sua felicità e quella di tutti. L’anti-invidia è un bene comune.

l.bruni@lumsa.it