Oggi ci troviamo alla fine di un’epoca nella storia della Chiesa, correndo un forte rischio di naufragare. Può essere utile ricordarlo: all’inizio del cristianesimo ci sono i travagli del parto, il distacco e processi di differenziazione. Ci sono state anche aspre dispute sulla rotta giusta da seguire. Il cristianesimo soffre e attraversa questo processo due volte.
Una volta in relazione a Gesù: la Chiesa c’è perché il Gesù terreno, tangibile, non c’è più – si è sottratto. “È bene che io vada” – nei discorsi di addio e nelle apparizioni pasquali questa ambivalenza è chiaramente percepibile. La Chiesa non è un’estensione dell’incarnazione, ma si deve alla ricezione del suo dono spirituale, la forza della sua ispirazione.
Siamo eredi dello Spirito, assolti, liberati, esposti. Così l’Europa non è radicata nel cristianesimo, ma come liberi eredi dobbiamo e possiamo ricevere questa eredità e allo stesso tempo trasformarla, coniarla in modo diverso.
C’è qualcosa di arioso, incomprensibile, un passaggio a un altro modo di rapportarsi alle origini. Non è un caso che Paolo, che non conosceva il Gesù terreno, sia il primo teologo del cristianesimo nascente. Paolo, molto prima dei Vangeli, ne ha scritto la drammaturgia e la grammatica.
Il secondo processo di separazione è un dramma e riguarda il rapporto con l’ebraismo. Che cosa fare di questo patrimonio, che viene percepito come gravoso eppure appartiene alla storia dell’alleanza con Dio? Come rapportarsi ad esso? In un lungo processo sinodale, passo dopo passo, si decide che la Chiesa non rimanga una setta riformista ebraica, ma diventi qualcosa di inedito.
Un’altra religione vede la luce, una nascita, anche una tragedia, che accompagnerà la storia. Ancora una volta, Paolo lo ha declinato teologicamente ed esistenzialmente in Rm 9-11.
Come l’inizio è qualcosa di potentemente capace di cambiamento e, al tempo stesso, di fragile, così lo è anche la fine: una seconda via di nascita e di relativizzazione. Negli ultimi due secoli, la Chiesa ha suscitato un interesse eccessivo: in quanto infallibile, quale gerarchia, corpo di Cristo, popolo di Dio o comunità.
Ma la Chiesa non è il regno di Dio, piuttosto viene da esso giudicata, deve andare incontro al proprio compimento: come città celeste – senza tempio, sacerdoti, ministeri dottrinali. Impensabile, eppure così ovvio.
Così una frattura si trova all’inizio e alla fine della storia della Chiesa – e in ogni fase essa deve affrontarla in modo diverso. Così anche oggi, all’altro capo della comunità degli eredi della Chiesa.
Dalle nostre parti stanno morendo molte forme di Chiesa: la Chiesa di stato e di potere costantiniana (così spesso ancora tale in Oriente), la Chiesa giuridica romana, la Chiesa sacrale-gerarchica, la Chiesa confessionale e la Chiesa borghese – forse questo dolore della morte sarà la nascita di uno stile diverso, sotto due aspetti.
In primo luogo, di una Chiesa più povera, più vicina alla sofferenza, esposta (segnata quindi con il simbolo dell’agnello sgozzato, che è diventato desueto per noi, ma che è onnipresente nei testi pasquali). In secondo luogo, di una Chiesa civile, accordata sullo Spirito, a favore dell’uomo democratico, in cui il Dio Uno e Trino troverebbe la sua gioia, in cui potrebbe rendersi presente e rispecchiarsi in un modo diverso, più libero, più fresco, più spontaneo.
Non sappiamo ancora come potrebbe sembrare questa Chiesa in maniera istituzionalmente affidabile. Questa è la nostra comune indigenza ecumenica, che però è anche la promessa che ci viene dalla storia.
Perché c’è sempre molto da morire nella nascita, negli inizi; e spesso anche molta nascita nel mezzo del morire. Che possa essere così anche in questo tempo di svolta che ci viene posto sulle spalle.
Elmar Salmann
- Pubblicato su “Briefe”, rivista dell’Abbazia di Gerleve.